C’era una volta… la pensione col sistema retributivo. Di cosa si tratta? E’ un sistema previdenziale che prevedeva, grosso modo, che ogni lavoratore percepisse una pensione rapportata alla retribuzione media degli ultimi anni della vita lavorativa. Ciò consentiva al lavoratore di disporre di una pensione non lontana dal livello dell’ultimo stipendio percepito e continuare, perciò, a mantenere un tenore di vita simile al precedente. Il meccanismo poggiava su una sorta di “patto generazionale” in base al quale le pensioni alle persone anziane venivano erogate attraverso i contributi previdenziali prelevati dalle retribuzioni delle persone in età lavorativa. Aggravato anche dalla presenza di un numero consistente di cosiddetti “pensionati baby” (basti pensare ai lavoratori pubblici era consentito andare in pensione con soli 19 anni e mezzo di contributi, cioè anche sotto i 40 anni), il meccanismo del calcolo retributivo non ha retto i colpi della crisi demografica (aumento percentuale della popolazione anziana), della crisi lavorativa (aumento del tasso di disoccupazione) e della crisi finanziaria (aumento del debito pubblico). Perciò, con la riforma Dini, per tutti i lavoratori con meno di 18 anni di contributi al 31/12/1995, è stato introdotto il “sistema contributivo”. Questo nuovo sistema prevede che la pensione venga calcolata sulla base dei contributi effettivamente versati da ciascun lavoratore durante tutta la vita lavorativa. Dunque, al momento di andare in pensione, viene calcolata la base contributiva complessiva ottenuta dalla somma dei contributi versati rivalutati ogni anno in base al tasso di variazione quinquennale del PIL. Il montante ottenuto viene convertito in una rendita (la pensione, appunto) in base a coefficienti di trasformazione che tengono conto dell’aspettativa di vita media e, ovviamente, dell’età della persona al momento della pensione. In pratica, a parità di montante, la pensione sarà più alta per chi ha un’età più avanzata in quanto la sua aspettativa di vita residua è inferiore, e viceversa. Sono in tanti che sollevano perplessità e dubbi sia sui coefficienti di rivalutazione che su quelli di trasformazione, ma questi sono argomenti da addetti ai lavori. Piuttosto ci sono alcune considerazioni che suscitano curiosità e perplessità. Innanzitutto è da osservare che oggi la maggioranza dei pensionati stanno beneficiando del sistema retributivo e sono ancora tanti i baby pensionati figli del vecchio sistema. Inoltre, mentre l’età teorica di pensionamento è fissata a 65 anni, (67 per uomini e donne dal 2026, se saranno realizzate le riforme indicate nella lettera inviata all’Europa dal Presidente del Consiglio) l’età effettiva media di pensionamento si posiziona ben al di sotto di quella teorica. Infine, mentre i pensionati di oggi possono contare su una pensione pubblica che copre il 60% circa della loro retribuzione, nel 2032 si aggirerà intorno ad 1/3 della retribuzione. Ecco perché si parla di previdenza complementare, destinata ad integrare quella pubblica.
In sostanza la futura pensione dovrà poggiare su tre pilastri:
1.La contribuzione obbligatoria del regime pubblico di base;
2.La contribuzione di categoria, collegata ad una determinata occupazione;
3.La contribuzione volontaria, mediante risparmio da investire in fondi pensione o prodotti assicurativi similari.
Teoricamente una bella soluzione la previdenza complementare! Non c’è che dire! Peccato però che per un giovane è già difficoltoso trovare un lavoro che non sia precario, che la busta paga è piuttosto alleggerita confrontata con quella di chi svolgeva lo steso lavoro trent’anni fa, che con quei pochi sodi dovrebbe costruirsi la vita, pagare l’affitto o il mutuo (se glielo concedono), pagare la rata della macchina, mangiare anche qualcosa…. e, infine, risparmiare tanto denaro per innalzare il secondo e il terzo pilastro della previdenza complementare, quando si fa fatica ad iniziare il primo. Si spera in qualche correttivo affinché le generazioni future non paghino l’ingordigia di quelle passate.