C’è tempo fino al prossimo 23 ottobre per visitare, a Roma, la prima retrospettiva dedicata all’artista di origine melfitana Giacinto Cerone. La mostra, allestita nell’ampia sala centrale della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e curata da Angelandreina Rorro, raccoglie un centinaio di opere realizzate dal fecondo scultore a partire dagli anni ’70, quando si trasferì a Roma per frequentare l’Accademia delle Belle Arti, fino alla sua morte precoce nel 2004. Importante è stato, per l’esposizione, il lavoro di ricerca dell’Archivio Giacinto Cerone e la collaborazione di gallerie e collezionisti privati.
Una visita alla mostra è stata organizzata il 4 settembre dall’Archeoclub di Melfi: una quarantina di appassionati hanno potuto apprezzare le opere di questo artista che negli ultimi anni ha suscitato i contributi di critici come Giuseppe Appella, Mario Codognato, Raffaele Gavarro, Daniela Lancioni; contributi che sono stati raccolti, insieme ai testi della curatrice, nel catalogo edito da Electa e che raccoglie anche foto del materiale esposto e una minuziosa bio-bibliografia. Il percorso espositivo è corredato da pannelli esplicativi in cui sono state raccolte sintetiche osservazioni fatte dallo stesso Cerone sulla sua arte. È inoltre possibile farsi guidare dalle parole dello scultore che, ancora in vita, ha rilasciato interviste e registrato diversi video riguardanti la sua poetica e il suo lavoro: un lavoro di intensa e faticosa materialità, per il quale si avvaleva di molti giovani collaboratori.
Concezione primaria dell’artista sulla scultura è che essa sia “rapporto con lo spazio: quanto spazio, poi, è indifferente”, affermò Cerone stesso. Un rapporto intessuto per mezzo dei materiali più diversi, spesso commisti in associazioni sorprendenti: dal pannello plastico da parete “Senza titolo” al trittico in gesso dei “Santi contrari”, adagiati a terra come bianchi sudari; dal colore lucente della ceramica incisa “Vasi sacri sono i poeti” all’ironico “Paesaggio sott”aceto” in legno e cemento, passando per il vortice circolare della “Rosa mistica” in moplen e silicone.
Le sue sculture vogliono essere puro gesto (“voglio che l’opera d’arte sia un tutt’uno la persona stessa che lo fa”) e perciò prendono senso e vita solo in un secondo momento, con l’apporto dello spettatore (“lo spettatore arricchisce l’opera d’arte, con la sua intelligenza, con la sua immaginazione ed esperienza”). È un’idea che Cerone mutua dai grandi della scultura moderna come Duchamp: il secolo passato è stato, secondo lo stesso artista, ricco di spunti fecondi, per quanto ambigui (“il ‘900 è un’epoca stimolante, per chi è disposto a raccogliere gli stimoli: altrimenti ti distrugge). La sua arte, per quanto immersa nella intensa materialità del gesto, anela però a farsi concetto, pura forma, come la musica, e ad acquisire quella “capacità di commuovere” che solo della musica è propria.
La retrospettiva dedicata all’artista lucano fa parte di un ciclo di esposizioni che include altri grandi nomi dell’800-‘900 e s’intitola “Le storie dell’arte”: non “una” storia dell’arte, dunque, ma “tante” storie, a significare l’impossibilità postmoderna di includere gli artisti in movimenti ben definiti. E ciò è particolarmente vero per questo scultore che, per la sua creatività esplosiva e indipendente, fa davvero storia a sé.