Dopo mesi di lezioni a distanza, anche i laureati dell’Ateneo lucano hanno finalmente potuto festeggiare il ‘graduation day’: si tratta della tradizione anglosassone di conferimento, con una cerimonia pubblica, del Diploma di Laurea conseguito.
Grazie alle parole del Prof. Stefano Rolando, intervenuto con una lectio all’evento, sono risuonate nell’uditorio le parole dello statista lucano Francesco Saverio Nitti.
Peculiare la riflessione del grande lucano sul tema dell’emigrazione (il fenomeno migratorio tra fine 800 ed anni ‘20 del 900 si configurava come fenomeno di massa): differenziandosi anche dalla visione di Giustino Fortunato, Nitti poneva in luce tutta una serie di effetti, non riducibili alla mera denuncia dell’abbandono della propria terra e degli affetti in patria.
Si pensi alle ricadute sul reddito dei territori d’origine, ai contributi alla crescita sociale e alla sprovincializzazione che la conoscenza di mondi e altre culture comunque garantiva.
La possibilità di affrontare con una tale complessità di visione le dinamiche migratorie (sia quando riguardino i giovani laureati che proseguono i loro percorsi professionali all’estero, che quando attengano piuttosto agli ingressi di lavoratori nel nostro Paese) sembra essere oggi pericolosamente assente nel dibattito pubblico, schiacciata tra posizioni ideologiche e comodi stereotipi.
Per limitare l’orizzonte di osservazione ai giovani , e non solo di quel graduation day, che ogni anno abbandonano la nostra regione per motivi di studio e di lavoro, il contributo ideale, che una testata come il Lucano medita di offrire ai suoi lettori, concerne proprio la ‘restituzione’ di questa complessità al tema.
Arduo compito: non solo peana e grida di sconforto per lo spopolamento e la sottrazione di capitale umano per i nostri territori; neppure esaltazione e compiacimento per le “magnifiche sorti e progressive” dei talenti e dei cervelli lucani in trasferta.
La linea di demarcazione e discrimine tra i due approcci è tuttavia labile. E mobile.
Certo, sarebbe desiderabile che l’opzione migratoria si configurasse davvero come una scelta (nittianamente volta alla crescita sociale e civile) e non come, di fatto oggi spesso è, un obbligo; ancora, vorremmo poter attestare un saldo positivo tra quanti, ogni anno, lasciano la nostra terra e coloro che vi si trasferiscono (in termini numerici, ma anche di profili culturali e professionali).
In fondo, l’analisi del tema migratorio è più un esercizio di auscultazione che di freddo esame statistico: ci obbliga a rispecchiarci, a riflettere ad esempio sulle politiche che mettiamo in campo in sede di infrastrutturazione del territorio, di sue emergenze culturali ed ambientali.
In quale misura il rafforzamento della nostra rete di istituti educativi, culturali e di ricerca potrebbe invertire la fuga di cervelli sino a giungere addirittura a fenomeni attrattivi?
Non sarebbe il caso di affiancare al Sistema Pubblico di Ricerca e Didattica (Università, CNR) anche una rete di Centri generati da investimenti sul territorio delle Multinazionali e grandi realtà industriali presenti in Regione?
E,quanto alla stessa Università, non si potrebbe creare un Polo Universitario unico – senza duplicazioni parziali o cloni sul territorio- in grado di competere effettivamente con l’offerta rappresentata dagli altri Atenei nazionali?
Le stesse Istituzioni potrebbero favorire la scelta di studiare presso l’Ateneo della propria Regione con una premialità (l’abolizione delle tasse regionali, ad esempio, che, specie in un periodo così delicato, costituiscono ulteriore aggravio dei costi di iscrizione e frequenza).
Ed ancora: in tempi di PNRR, investire in alcune filiere produttive, piuttosto che in altre, quali ricadute comporterebbe nell’annoso problema di mismatch tra domanda ed offerta di lavoro in regione? Nuclei urbani e territori interni: come poter riconfigurare una dimensione di servizio dei primi rispetto ai secondi, senza inseguire una cinica razionalizzazione delle prestazioni accessibili (si pensi a quelle sanitarie e di cura della persona)?
Sono solo alcuni punti, frettolosamente rubricabili nel capitolo della politica e della programmazione, ma in realtà non alieni rispetto al trend che già nei prossimi anni (e non decenni) potrebbe riproporre con singolare declinazione, ma con non minore drammaticità, il motto “briganti o migranti”.
Non si può ignorare, poi, che, associata alla componente obbligata nella scelta di studiare fuori regione, insistono – e non sono certo marginali- motivazioni più effimere, non sempre razionalmente giustificabili, i cui effetti sono evidenti anche nelle scelte esistenziali (metter su famiglia lontano dalla terra d’origine, privi della vicinanza materiale e morale degli affetti parentali, porta spesso alla rinuncia ad avere figli).
Uno stimolo più vigoroso all’orgoglio dell’appartenenza, alla rilettura della nostra storia (anche nelle pagine più controverse, soffermandosi magari sul tracollo spesso sopravvenuto alle ‘liberazioni’ succedutesi nei decenni, dall’arrivo dei Piemontesi in poi), concorrerebbe ad un inedito protagonismo delle nuove generazioni nello sviluppo autoctono della Regione.