Il carnevale lucano rappresenta un fortissimo patrimonio identitario e culturale, le maschere tipiche hanno origini molto antiche e sono legate a tradizioni arcaiche e contadine.
Spesso dall’aspetto un po’ grottesco, sono certamente figure allegoriche.
Diverse sono le maschere antropologiche che popolano le strade lucane durante il carnevale: cominciando da Satriano troviamo: Rumit (uomo albero)maschera silente e rappresenta il satrianese che nonostante non goda di buone condizioni economiche è rimasto fedele alla sua terra e ha provveduto a crearsi un rifugio nel bosco; Urs (Orso) uomo-animale vestito di pelli di pecora o di capra, rappresenta prosperità, buona sorte e successo. Si tratta del cittadino di Satriano emigrato verso terre lontane in cerca di fortuna e a causa della lunga lontananza dalla sua terra d’origine è muto e indossa un sacchetto che ne nasconde l’identità, lasciando liberi solo gli occhi e la bocca e Quares’m (quaresima), donna anziana e malinconica vestita di nero, sul cui volto è disegnata una smorfia rossa dalla bocca fino alle guance. Sul capo porta una culla che contiene il figlio concepito nel periodo di Carnevale, di cui però non conosce padre e che si pensa rappresenti il Carnevale ormai finito.
Ad Aliano ci sono le maschere cornute che rievocano creature demoniache dalla cui fronte spuntano lunghe corna e grandi nasi pendenti; ci sono le maschere dei Domini di Lavello, dove in passato i giovani mascherati con l’abito rosso tipico del Domino potevano ballare di nascosto con le loro innamorate.
A Montescaglioso invece troviamo: U Fus’ che rappresenta la Parca romana con il suo grande fuso che viene lanciato in strada, La Quaremma, cioè la moglie di Carnevalone; Il Carnevalone, un vecchio barbuto a cavallo di un asino con in mano un ombrello nero e sgangherato.
Il Carnevale di Tricarico ha inizio il 17 gennaio in concomitanza con la festa di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali e ha come protagoniste le maschere delle mucche e dei tori, che rappresentano una mandria in transumanza.
E a Potenza?
Il tredici giugno 2018, il Consiglio comunale riconosce Sarachella come maschera della città di Potenza.
L’intellettuale potentino, Lucio Tufano, nel volume di presentazione della maschera di Sarachella, curato da Rocco Cantore e dalla compianta Ghita Locantore, edito dai Club Lions, ha saputo collocare antropologicamente “Sarachedda”, in quel groviglio urbano che erano i sottani, luoghi abitativi che richiamano “il sotto”, il sotto proletariato innervato di cultura contadina, miseria ed espedienti quotidiani per tirare la giornata e renderla meno uguale a se stessa.
«Giacca scura rattoppata con pezze colorate, scarpacce rotte, dalle quali fa capolino l’alluce rosso di rabbia che rappresenta l’era dei sottani, pantaloni larghi di stoffa grezza, rattoppati corti e ripiegati come le vecchie calze. Coppola sghimbescia, maccaturo a quadroni che fuoriesce dalla tasca, sulla pelle maglia di lana di pecora, camicia come viene viene, collana di “cerasell” ovvero peperoncino rosso corallo e fra le mani una saraca». Sarachedda, a cui «è mancato il tuffo nel cerone, l’ingresso nel sipario assistito, il tepore del termosifone».
Una figura «sghemba di corpo e ridicola di statura», ma portatrice di verità inquietanti di cui il buon senso e il perbenismo diffidano e la ragione discrimina ma delle quali tuttavia non si può fare a meno.
Sarachella come altre maschere regionali del resto, non è l’emblema del riscatto, sarebbe troppo, ma è la fotografia della potentinità popolare, « un simbolo in più che ci potrà rappresentare nella sua forma storica, aneddotica e metaforica come un emblema della resilienza, quella che ci deve far guardare al futuro con speranza anche quando i problemi intorno a noi sono tanti».