Con Francesco Scaringi per fare il punto sulla rassegna di danza e arti performative della città capoluogo
Si è appena conclusa X Edizione del “Festival Città delle 100 Scale”. Un appuntamento merita di non essere mancato. Del Festival sappiamo che è una rassegna internazionale di danza urbana e arti performative nei paesaggi urbani, per rimanere alla semplice definizione. Siccome credo che questo Festival si possa ritenere un ‘evento’, nel senso pieno del termine, è il caso di mettere da parte le definizioni e di lasciare che il Festival si racconti dalla viva voce di chi lo ha pensato e realizzato finora. Incontro, così, il Prof. Francesco Scaringi, che, insieme al prof. Giuseppe Biscaglia, del Festival è direttore artistico.
Facciamo memoria delle ragioni che hanno ispirato l’ideazione del Festival ‘Città delle 100 scale’. Ci ricorda perché e come è nato?
Il festival nasce circa 11anni fa. Dopo l’esperienza di “Arte in Transito” che ci aveva permesso di rendere protagonista la città di Potenza tramite l’architettura è l’arte contemporanea. Io e il Professore Giuseppe Biscaglia, curatori del festival, abbiamo pensato di trovare una sintesi tra tutte le nostre esperienze come associazione “Basilicata 1799”, in unico progetto in cui varie forme di espressività potessero incontrarsi, attraverso il filo della riflessione, che aveva caratterizzato fino a quel momento la nostra associazione, con la città contemporanea, per noi quella delle cento scale, cioè Potenza, come luogo reale e metaforico di interazione. Insomma ci siamo letteralmente inventato un festival multidisciplinare di teatro, danza e arti performative nel paesaggio urbano, che in poco tempo ha avuto una buona risonanza ricevendo anche il riconoscimento Ministeriale e diventando uno tra i festival più significativi del panorama italiano.
– Può descriverci il percorso che dal primo anno ad oggi avete compiuto, attraverso le scelte tematiche e la selezione di spettacoli e artisti?
Le tematiche nascono dall’esigenza di essere dentro la realtà è di mettere in atto strumenti interpretativi con il massimo di apertura possibile.
I nostri termini chiave, che titolano i nostri festival, non sono camicie di forza per gli artisti e le compagnie coinvolte, le quali verso di essi, però, mantengono una particolare attenzione. Le prime edizioni hanno rivolto l’attenzione intorno al rapporto comunità – cittadinanza – relazione con al centro il corpo, in modo particolare con la danza urbana, pensata per la città, dove i luoghi diventano veri e propri elementi espressivi e non solo location, o con artisti che hanno fatto della “comunità” una loro cifra professionale e artistica, basti pensare alle molteplici forme del teatro contemporaneo. Questo ci ha dato subito una impronta internazionale. Ed è in questa fase che abbiamo incontrato amici di viaggio importanti come, per citarne alcuni, I Reetouremont, CollettivO CineticO di Francesca Pennino, i Motus, Aldes di Roberto Castello, MK di Michele Distefano, Alessandro Carboni, Alessandro Sciarrani, Virgilio Sieni e ospiti come Toni Servillo, Vinicio Capossela. Nel corso degli anni sempre di più è aumentato il profilo internazionale del festival e si sono infittite le collaborazioni. Solo alcuni nomi, quelli con una rapporto più “intenso”: Milo Rau, Romeo Castellucci, Agrupacion Serrao, Antonio Latella, Emma Dante, RicciForte, Alessandro Serra, Murgia, Philippe Quesne, Rimini Protokoll, La Veronal, Jan Fabre, il compianto Nekrosius.
La percezione che si ha del Festival è che si tratti di qualcosa di ‘speciale’, come a dire di assolutamente unico, almeno qui, in Basilicata. Quali sono, a suo giudizio, i motivi di questa percezione più o meno diffusa?
Sicuramente è vero. In fondo la ricchezza del festival sta nel suo grado di “novità” che spiazza ma non allontana il pubblico, crea curiosità ed interesse che cresce di anno in anno. Io credo che il pubblico capisca di non trovarsi mai di fronte a qualcosa di banale o retorico. Intuisce che è un festival intellettualmente onesto, che non vuole sedurre il pubblico per fare semplicemente cassa. Contiene dentro di sé uno spirito donativo e partecipativo e nello stesso tempo rischia offrendo anche cose che “si vedono poco in giro”, o hanno un grado di “sperimentazione” che si apre a quanto avviene anche in altre parti del mondo.
Qual è stato e quale dovrebbe essere il rapporto tra un Festival così importante e la città di Potenza? Quanto può contribuire un Festival di questo tipo alla crescita della comunità cittadina?
Il festival può contribuire, come presidio culturale, alla crescita culturale e civile, ad un profilo di comunità aperta, a creare un clima di interesse culturale nei confronti della città per un’immagine non appiattita su un Sud chiuso in se stesso. Da un paio d’anni sperimentiamo Spazio K, in Largo d’Errico, nel centro storico di Potenza, che è diventato il luogo di transito e di incontro di varie esperienze artistiche che s’incrociano con il festival “mixando” pubblici ed interessi, sguardi profondi e lontani con momenti di vicinanza e di festa. Una fucina anche per giovani artisti, musicisti, grafici, performer che hanno a disposizione un luogo per poter fare e osare.
Che bilancio fa dell’edizione appena conclusa?
Di questa decima edizione do un bilancio estremamente positivo. Sicuramente siamo uno dei festival italiani con una durata e un’articolazione fra le più ampie ed interessanti. Quest’anno abbiamo raggiunto un profilo internazionale di rilievo, con la presenza di alcune realtà tra le più significative della scena internazionale come per esempio Milo Rau e Rimini Protokoll. Da parte del pubblico vi è stata ad ogni edizione una risposta più ampia e convinta, e si è rafforzata la presenza di giovani sempre di più partecipi e “critici”. Insomma abbiamo un pubblico affezionato ed “esperto”, non solo del settore, come succede spesso nei festival.
Ci direbbe qual è la sua visione delle politiche culturali della Città e della Regione?
Solo da qualche anno abbiamo una legge regionale per lo spettacolo dal vivo che è già di per sé una cosa buona. Certamente va smussata dalle complicazioni burocratiche e resa più compatibile con i tempi reali. Le modalità e i ritardi sui finanziamenti creano problemi di tenuta. C’è comunque per le oscillazioni politiche, sia regionali che nazionali, insicurezza per il futuro che non garantisce stabilità e progettualità, anche come sponda per cogliere altre possibilità in campo europeo. Dal punto di vista comunale c’è molto da fare. Il comune di Potenza ha visto una crisi finanziaria che si è riversata in tutti i settori e soprattutto sulla cultura. Si è cercato di rispondere con una mobilitazione delle realtà locali associative e individuali, che se da una parte ha dato a questa città una capacità di movimento dall’altro ha corso il rischio di appiattire tutto sulla quantità più che sulla qualità e per molti versi solo salottiera. Poco si è fatto per il problema degli spazi e i contenitori. Il teatro Stabile, per esempio, ha una funzione troppo generica è sovraccarico di iniziative che non sempre né qualificano l’identità. Più di una volta abbiamo sottolineato la possibilità di renderlo anche un centro di produzione a servizio della Basilicata. Basti pensare che a Matera, capitale europea della cultura 2019 non c’è per il momento un teatro cittadino.
Qual è la prospettiva futura del Festival in termini di contenuti di riflessione e di scelte artistiche?
Ogni anno è una grande avventura e in questo momento stiamo portando a termine l’ossatura del progetto che troverà sostegno su tre pilastri: dal punto di vista della riflessione l’idea centrale prenderà in considerazione il rapporto tra il vuoto e il pieno riferito, usando un’immagine, allo slargo che bisogna operare per creare inclusione; un’ulteriore apertura alla scena europea ed internazionale anche con specifiche produzioni; terzo un’attenzione particolare ai giovani con momenti più esplicitamente a loro riferiti sia di fruizione che di creazione e riflessione.