Professore ad Harvard e imprenditore, il 39enne di Bernalda ha scelto gli USA per fare ciò che ama. Oltreoceano è un altro mondo, dove idee e individui hanno ancora il valore che meritano e a vincere è sempre la meritocrazia. Al contrario dell’Italia.
Quando una persona valida lascia la propria terra per realizzare le proprie aspirazioni altrove ti assale un vago senso di fallimento, per non aver fatto nulla di concreto per trattenerlo. Quel senso sparisce nel caso di Gianluca De Novi, lucano di Bernalda che negli Stati Uniti si è consacrato.
Professore ad Harvard e strartupper, si occupa di chirurgia robotica, simulazione chirurgica e medical imaging alla “Harvard Medical School” di Cambridge e al “Massachusetts General Hospital” di Boston. Ha lasciato l’Italia, contrariato, quando ha capito che le logiche macchinose e viziate del sistema accademico e imprenditoriale erano il freno del suo talento. Gli Stati Uniti d’America gli hanno dato l’occasione, sfruttata appieno, di frequentare in un ambiente vivo e in continuo fermento, dove la competizione è la molla del successo; dove la spinta a migliorarti e a dare di più è un imperativo, una sfida quotidiana entusiasmante. L’America Gianluca l’ha trovata grazie al suo carattere e alla sua testardaggine, ma in Italia questi non sarebbero bastati. Non è animato da un senso di rivalsa nei confronti della sua terra, ma è grato agli USA che gli hanno permesso di esprimersi facendo ciò che ama e messo a disposizione gli strumenti per farlo nel miglior modo possibile. L’Italia e la Basilicata non si sono meritate Gianluca, l’America sì. Un ribelle che non ha accettato le “regole” e non si è lasciato sfruttare. Non serba nessun rancore: il suo può essere letto come un invito a riflettere destinato a giovani e istituzioni. Il suo è un esempio servito a chi vorrà farne buon uso.
Professore ad Harvard e startupper, ricercatore e imprenditore, chi è Gianluca De Novi? Ma soprattutto perché hai lasciato l’Italia?
Gianluca De Novi è principalmente una persona creativa, curiosa e competitiva, che ha sentito la necessità incontenibile di crescere, misurarsi con i migliori e migliorarsi senza fermarsi difronte ai tanti problemi e ostacoli incontrati. In Italia ho avuto la sensazione di sprecare molto tempo combattendo lotte inutili, che semplicemente mi impedivano di concentrarmi su quello che invece avrei dovuto fare. Ho lasciato l’Italia semplicemente perché ho sempre creduto che ci fossero altri posti in cui certe cose non accadessero e avevo assolutamente ragione. L’Italia è un bellissimo paese, non fraintendermi, ma ce la stiamo plasmando in un modo a cui nessuno piace e poi spesso e volentieri ci autocommiseriamo per le cattive condizioni lavorative e fiscali. Accusiamo sempre i politici, ma poi non ci rendiamo conto che è la nostra cultura ad essere sbagliata. Il cambiamento deve riguardare prima la mentalità per poi propagarsi alla politica.
Come sei arrivato negli Stati Uniti?
Essenzialmente ci sono arrivato spendendoci un periodo di 6 mesi che sarebbe servito a farmi concludere il mio dottorato di ricerca alla “Harvard School of Engineering and Applied Sciences”. In seguito ho ricevuto altre offerte e a quel punto ho deciso di accettarne una. Subito dopo aver stabilizzato la mia posizione accademica ho cominciato a sviluppare quella imprenditoriale, spostando qui una società che avevo precedentemente fondato in Italia e avviando altri progetti.
Simulazione chirurgica e chirurgia robotica: a un vecchietto di Bernalda, il tuo paese d’origine, come glieli spiegheresti?
Cercando di rimanere su di un linguaggio semplice. Si può dire che la simulazione chirurgica è un’esercitazione per imparare il più possibile su quello che si vuole andare a fare in sala operatoria, al fine di diminuire i rischi per il paziente, migliorare i tempi di guarigione, i traumi e far lavorare il chirurgo nel modo più confortevole possibile. La chirurgia robotica è, invece, molto legata allo studio di nuovi strumenti chirurgici automatici (o semi-automatici) che migliorino le performance del chirurgo.
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