In onore dei festeggiamenti della Santissima Maria Vergine del Carmelo, Sant’Angelo di Avigliano ha ospitato il gruppo musicale torinese “Perturbazione” che ha saputo trasmettere energia, passione e un sound accattivante grazie anche alla versatilità dei suoi componenti. Sono riusciti a monopolizzare l’attenzione del pubblico nella piazza XVI Dicembre grazie alla loro bravura.
Quando, come e perché nasce il gruppo “Perturbazione”?
I Perturbazione nascono alla fine degli anni ottanta in un liceo della provincia di Torino, a Rivoli. Eravamo compagni di classe d’istituto e, da adolescenti, la musica era qualcosa che rappresentava bene tutte le emozioni di quel periodo. Era una bella via di fuga e anche di ritrovo, in realtà. Come tanti altri gruppi, uno ha preso il basso, un altro la chitarra e abbiamo provato a suonare delle canzoni. Prima per emulazione cimentandoci con le cover e poi provando a scrivere anche delle nostre cose. Nel frattempo la formazione si è aggiustata. È arrivata Elena nel 1995 con il violoncello perché sentivamo che il suono in quattro era un po’ scarno e il suono di quello strumento che allora non era molto usato nel rock ci colpì particolarmente. E poi arrivò anche Cristiano, fratello di Rossano, che suonava in un gruppo cugino in cui suonavamo sempre. Da lì la formazione in sei per tutti questi anni fino a questo autunno dove Elena e Gigi sono usciti dal gruppo.
Il nome del gruppo cosa indica?
Il nome del gruppo è nato un po’ per scherzo. Faceva il verso a tante cose punk. Pioveva il giorno che abbiamo deciso di formare il gruppo. Per tanti anni fu fuorviante perché ci si aspettava magari che facessimo più musica punk e poi, piano piano, è stato sinonimo di emotività a fior di pelle, di una forte perturbazione emotiva.
Quanto ha inciso la lingua inglese nella vostra formazione?
Con l’inglese c’era sempre una specie di filtro con il pubblico italiano. Ci piaceva l’idea di giocare un po’ di più con la nostra lingua. È stata la New Age, il rock anglosassone, il punk, il post-punk con i quali eravamo cresciuti a spingerci a cantare in inglese. Tendi ad imitare la musica che ascolti. Molte persone però non capivano ciò che cantavamo quindi l’inglese diventava una specie di cortina, una barriera e abbiamo ripreso con l’italiano che ha più dolcezza ma meno ritmo. È più sincopato. Abbiamo lavorato molto sulla lingua dalla fine degli anni novanta fino agli anni duemila. Abbiamo scritto tanto. All’inizio vorresti fare qualunque cosa e poi vedi che riesci a fare una, due, tre cose bene e ti concentri su quelle. E da lì è uscito “In Circolo” del 2002, il primo disco tutto in italiano. È stata la prima volta che ci siamo sentiti ritornare indietro. Mandavamo sempre onde fuori e, a un certo punto, ce le siamo riviste ritornare.
Quanto sono importanti le collaborazioni tra artisti? Qual è quella che ricordi maggiormente?
La vera “palestra” è stata “Città viste dal basso” dal 2005 al 2010 circa. L’idea era quella di visitare le città attraverso gli sguardi delle persone che ci camminano. Ci sono stati dei cast molto misti: Max Pezzali con Davide Toffolo, Remo Remotti con La Crus. Abbiamo imparato moltissime cose arrangiando e suonando la musica altrui. La collaborazione che ricordo maggiormente è stata quella con Luca Carboni per la canzone “I baci vietati”. È stata una canzone molto intima ed è nata spedendogli il pezzo. Gli è piaciuto ed è venuto a registrarlo.
Qual è stata l’esperienza che vi ha arricchito di più in campo musicale e perché?
“Città viste dal basso” ci ha permesso di conoscere tanta gente. È stata veramente un’esperienza incredibile. L’esperienza di Sanremo ci ha regalato una bella emozione. Ci ha dato un’ulteriore maturazione. C’è stata un’attenzione maggiore. Il festival è una specie di anomalia italiana, c’è un’energia forte. L’Italia intera ci ascolta. È stata un’esperienza ricca. La canzone “Unica” ci ha aiutato, aveva un potenziale forte. Aveva, infatti, un forte groove e una spensieratezza di base. Presentava una sorta di amore non convenzionale, aveva la sua inquietudine. Ci domandavamo come avrebbe reagito il gruppo femminile perché si parlava di donne nella canzone. È stata un’esperienza molto bella.
Avevate già suonato in Basilicata in precedenza?
No no. È il primo concerto. Ci manca solo il Molise ora. Speriamo di ritornare in Basilicata. Ci sono grandi città che sono un caso a parte: Roma, Milano, Bologna, Torino, Napoli. Poi c’è la provincia che è un’enorme parte dell’Italia. Le province sono accomunate dal fatto che le cose che vengono organizzate sono più sentite in qualche modo. C’è tanta passione.
Progetti per il futuro?
Pubblicheremo un disco nuovo che abbiamo finito di registrare adesso. Si chiama “Inverno di scrittura” e uscirà a gennaio. Abbiamo molta voglia di raccontare storie nuove che sono poi la tua carta d’identità, ti creano una strada. Viviamo molto in funzione di quel momento. Speriamo che vada bene.