Ogni domenica è sempre la stessa storia. Che ci sia sole o pioggia, neve o grandine, l’umore della domenica è sempre quello. Sono a letto. Schiena a pezzi. Ora che potrei dormire o perlomeno riposare non riesco a chiudere occhio e a quelli che hanno capito tutto nella vita, vorrei dire: lasciatemi in pace. Quando il sonno e i sogni abbondavano, non potevo restarmene sotto le coperte e nemmeno avevo un letto, caldo e comodo, che mi permettesse di fissare un candido soffitto come questo. Bianco e immacolato come la neve. Se chiudo gli occhi non dormo, ma posso rivedere immense distese di neve. Dalla Sicilia alla Lucania, dall’Italia agli Stati Uniti, le terre che mi hanno cullato e mantenuto. Sono molto vecchio per certe cose. Troppo per altre. Classe 1937. Settantotto a dicembre, ma portati bene. Merito del freddo che ha conservato la mia carne.
Nella mia vita, ho esercitato diversi mestieri, “nevarolo” in Italy e “uomo del ghiaccio” in America e col freddo ho una certa dimestichezza. Al tempo della mia adolescenza non esistevano attrezzature per la confezione di gelati, granite e altro, che si vendevano specialmente durante i periodi estivi. All’epoca, sulle montagne, la neve cadeva abbondantissima e alle volte, specialmente a dicembre, che era il mese maggiormente nevoso, arrivava fino a due metri. Sulle alture vi erano delle neviere, costituite da ampi fossati nei quali i “nevierai” facevano raccogliere la neve a strati, calcati con i piedi e ricoperti di paglia, per prelevarla d’estate a cubetti e venderla a valle. Oggi a chi si lamenta del superfluo vorrei far rivivere un po’ del mio tempo e almeno un giorno di chi, con dignità e rassegnazione, ha affrontato fatica e povertà. A undici anni cominciai a lavorare nella tacca della neve. La tacca della neve era in Sicilia. Sul vulcano. Io non avevo nessuno. Salvatore, un cugino di mio padre, faceva quel mestiere ed io lo seguivo. Erano tempi tristi.
Freddo e fame erano compagni fedeli, ma ero giovane e questo non lo capivo… Pensavo che solo quello fosse il modo di vivere. Tristezza e sottomissione, freddo e immolazione. Che gioia, però, quando la tacca della neve veniva “vurricata”, coperta. Ci buttavamo la terra sopra e calavamo, stanchi e soddisfatti, a valle. La neve si ghiacciava e, poi, si cominciava a tagliare in estate. E, all’epoca, veramente non si dormiva mai. Sempre in partenza, sempre “a’ mundàgna”. Non c’era un orario ben definito: a volte partivamo verso le due del mattino, altre verso le tre. Che si arrivava lì sopra verso le otto perché dovevamo prendere le felci e altre foglie con le quali avvolgevamo la neve perché non si sciogliesse, e poi la mettevamo dentro i sacchi.
La neve venduta era di due tipi: quella bianca, per uso alimentare e medico, e quella grezza o nera destinata ad altri usi. Il lavoro era sempre uguale, da sempre e in ogni luogo. Salvatore, dopo la guerra, restò per dieci anni in Lucania a fare il nevarolo perché, di passaggio per queste terre, in fuga dal conflitto, pensò di essere arrivato in Sicilia. Sentì dire: “addùma a làmba e leva ‘i fìlici”. Pensò: “Sono a casa”. Non era in Sicilia, era lontano, ma quelli facevano il suo lavoro. Si fermò ad aiutarli e nessuno lo chiamò più Salvatore. Divenne, per tutti, ‘U siciliano”.
Si trovava nell’area sud-occidentale della Basilicata – o Lucania, come preferiscono i cultori della millenaria tradizione magno-greca – nel punto esatto in cui, lasciandosi alle spalle una guerra non sua, aveva aiutato a sopravvivere alcune persone condannate a morte certa. Il posto preciso era una contrada detta “Accampamento”, una frazione di Lagonegro. Dai suoi racconti ho sempre pensato che ci fosse, all’epoca, un campo di concentramento tedesco.
Salvatore parlava di un presidio militare al quale nessuno poteva avvicinarsi. Nessuno, tuttavia, in seguito, mi ha saputo mai dire nulla in merito e di quel periodo, peraltro di grande confusione, mancano documenti ufficiali. È risaputo, d’altronde, che i militari tedeschi non andavano molto per il sottile e, specialmente durante gli ultimi tempi della guerra, non badavano certo ad avvisare le autorità italiane. (…)
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