“055” è il prefisso di Firenze, ma scritto in bianco, in verticale, di fianco ad una foto di due calzini rattoppati appesi al filo da due mollette, diventa la prima autoproduzione fonografica dei Lucanìa. Questo disco, come i cristalli, i fiori, le foglie, certi motivi di venature, le conchiglie o la traccia del vento sulla sabbia… testimonia che il mondo è irregolarmente disseminato da disposizioni regolari.
I protagonisti dunque, lucani a Firenze, consegnano il proprio racconto all’immagine di questa copertina. Potrei scrivere tanto sul loro prezioso contributo della diffusione della cultura lucana nella nazione. Su questi fogli però mi soffermo al lavoro discografico “055” dei Lunanìa, ovvero:
Massimo Duino (mandolino e voce), Marco Massari (tamburi a cornice), Carlo Arvia (chitarra classica), Mario De Carlo (organetto diatonico, tromba e voce), Luca Bannella (organetto e chitarra), Gianpiero Veccari (contrabbasso), Jamie Maria Lazzara (violino) e Gianfranco Marcontini (batteria).
“Fandango Basco”, il brano di apertura rimanda ad un uomo ed una donna, faccia a faccia come davanti uno specchio; come tradizione tramanda, che danzano senza toccarsi mantenendo un ritmo ternario per ritrovarsi, dopo un giro sulle due ultime battute, l’uno negli occhi dell’ altra.
“Tarantella in la minore”, il secondo brano, è una composizione di Mario De Carlo, qui l’organetto diatonico, carico di tradizione, rimbalza melodioso come un vento gravido di arcobaleni sulla pelle e sui sonagli del tamburo a cornice di Marco Massari, maestro del “tormento ritmico per la grazia della quiete”, il principale esportatore della cultura del tamburo a cornice in Toscana.
Il semitono mediorientale, arabeggiante del mandolino di Massimo Duino, introduce “Tirituppete Lariolà” la terza traccia: brano cantato. E’ la scena di apertura, il bussare ad un portone, il suono delle nocche sul legno di “Zì Munachella” che a scriversi fa “tuppe tuppe” a condurre l’ascoltatore in storie ed immagini assai ricorrenti nella tradizione della canzone lucana. Si tratta di una confessione urgente, per una figlia ammalata, prima che esali l’ultimo respiro. Introdotto il prete nelle stanze della giovane fanciulla, dopo aver ben chiuso “porte e finestre ed i balconi” avviene la “confessione” sul letto. Un amore clandestino, sembrerebbe, di quelli che nel tempo hanno ispirato centinaia di proverbi nell’immaginario popolare e che la memoria tramanda. Preti o monaci, soggetti più umani rispetto all’alto clero, riflesso speculare della classe subalterna, parte integrante della vita quotidiana contadina. Smascherati “amanti segreti” della buona cucina, del buon vino e del gentil sesso : “lu mòneco re lu comènd re meglière ne tène trènda !” (il monaco del convento di mogli ne ha trenta!)… estrapolando da alcune pubblicazioni in merito di Beniamino Tartaglia.
Il passato indossa un nuovo presente evidenziando la dicotomia tra l’universo del sacro dei rituali di trascendenza e il mondo profano legato all’ebbrezza della festa, un tratto che nel progresso dei secoli ha silenziosamente inciso l’indole dei lucani…
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