C’era una volta la città partenopea e c’è ancora. Due facce nello stesso volto “la Napoli concreta e quella del mito. I suoi quartieri sono stati raccontati bene da Giuseppe Marotta, Domenico Rea; una narrativa della Napoli centrale, la Napoli dell’Ottocento di Matilde Serao ed Eduardo De Filippo, sonora, dove la vita si svolgeva fra le strade”. Esordisce così lo scrittore e giornalista di origini lucane, Raffaele Nigro, quando, un po’ alla sprovvista, e inaspettatamente, lo avviciniamo a Venosa, nel giorno delle celebrazioni del 750esimo compleanno del poeta fiorentino dai versi immortali, prima della presentazione del libro di Annavera Viva.
Un incontro, organizzato dal comitato del vulture “Dante Alighieri” che ha voluto ricordare quanto le radici sul territorio siano importanti, e quanto l’albero della terra madre i suoi frutti. È la Napoli dei vicoli stretti, chiassosa, affrescata di luci ed ombre, di uno scorcio di vita vissuta, di una vitalità che esplode e implode nella nicchia di un universo a parte. Il quartiere La Sanità è un nucleo a sé; è il mondo raccontato dalla scrittrice, durante la presentazione del suo libro presso l’IISS di Venosa.
Il rione Sanità, raccontato nel libro della scrittrice che è risultata ben lungi dall’essere una scrittrice di genere, non è solo una storia di faide interne o di degrado sociale. È davvero un microcosmo in cui il tempo sembra essersi fermato al rintocco delle campane ottocentesche, in una dimensione di realtà anacronistica, quasi apodittica. Ebbene sì, realtà, è la parola giusta perché il romanzo pullula di verità descrittiva. L’autrice risponde: “Il quartiere stesso in cui è ambientato è una tragedia classica. Un quartiere che assume confidenza con la morte” in cui la morte diventa compagna della vita.
La preside Mimma Carlomagno ha così commentato: “Quando il presidente della società Dante Alighieri mi ha proposto la presentazione di questo libro, ne sono stata felice perché ho sempre ritenuto che la scuola debba aprirsi al territorio e ho pensato all’importanza della lettura: Non esiste nessun libro tanto malvagio da non giovare almeno in qualche sua parte. Un modo per fare lezione non in aula ma in aula Magna”. Il presidente del Comitato “Dante Alighieri” del Vulture da parte del presidente Giuseppe Pellegrino ha descritto l’intento di un comitato che vuole aprirsi alla comunità nella rete di una più ampia associazione che sul territorio nazionale coniuga l’importanza della lingua italiana con le radici del territorio, alla scoperta di parole misconosciute per una lingua, l’italiano che, si spera, non diventi mai una lingua “morta”.
Questo è l’incipit di un percorso di riscoperta dell’albero genealogico delle origini che il Comitato sta portando sul territorio lucano, abbracciando non più soltanto l’anello gemellare Venosa e Montemilone ma tutto il circondario, aprendosi al vulture e anche al melfese. “Con il mio amico Raffaele Nigro stiamo portando avanti un discorso sull’apertura di un parco letterario a Melfi, in memoria di Federico II” ha commentato Pellegrino.
“Grazie alla collaborazione di un membro importante del comitato, Patrizia Pellegrino, abbiamo avuto l’onore di ospitare Annavera a Venosa. Scrittrice di origini leccesi, che da molti anni vive a Napoli, svolge l’attività di scrittrice grazie al supporto della famiglia” dice Pellegrino “è una donna del sud che incarna tutto il calore della sua terra”.
“E’ un romanzo corale in cui la tecnica investigativa è il pretesto per far parlare tante voci, tante versioni diverse di quel quartiere. Quando si entra in quel quartiere inizia il volto della morte che nasconde il bello; inizia un mondo a parte; un quartiere molto intenso che utilizza linguaggi propri, dove la versione criminale non è quella di Scampia; ha ancora le sue regole; è una criminalità retrò in cui c’è ancora il ruolo della famiglia” dice la scrittrice. “Non è dunque un giallo che risponde ai canoni tipici del romanzo di genere”, la cui struttura è prestata per parlare di altro, come sottolinea Ernesto Miranda, docente di Storia e filosofia presso l’IISS di Venosa.
Il titolo “Questioni di sangue” al di là di ciò che la trama possa suggerire, allude ai rapporti di sangue che lega fra loro i diversi personaggi: “l’appartenenza a un fato dal quale non si può sfuggire, l’elemento identitario del sangue che si lega alla problematizzazione del libero arbitrio. Il libero arbitrio non è una condizione garantista per natura, per essenza, ma è un lusso che non ci si può permettere se si è già predeterminati dalla famiglia ad assumere una identità per tutta la vita”, dice Ernesto Miranda. L’autrice risponde: “il quartiere stesso in cui è ambientato è una tragedia classica. Un quartiere che assume confidenza con la morte”. La morte diventa, com’è in natura, compagna della vita.
La moderatrice Carmela Sinisi, chiosa: “Raffaele è costruito con lo stesso sangue nelle vene di Peppino. I due fratelli sono identificati su un’unica questione di sangue: la genetica”. Ed emerge proprio nella genetica il rapporto controverso tra radici e sradicamento.
Il confronto tra Don Raffaele e Don Peppino, fratelli di sangue, sono costretti dalle circostanze a separarsi; l’uno, suo malgrado, viene allontanato in tenera età dal nucleo familiare, per decisione degli assistenti sociali; l’altro, sempre dalle circostanze, è costretto a rimanere nel Quartiere Sanità. Intraprendono due percorsi diversi; l’uno diventa servitore di Dio e della Chiesa, l’altro uomo della camorra; il destino vuole che finiscano per rincontrarsi; è un incontro di sangue che pone in essere una riflessione ‘tragica’ sul libero arbitrio che finirà per attanagliare persino un uomo di fede quale Don Raffaele: “Se fossi vissuto con mio fratello quante possibilità avrei avuto di prendere una strada diversa?”, questa è la domanda cruciale che ci si pone e la cui risposta è aporetica: “probabilmente nessuna” dice Annavera.
Il fulcro della storia è il perenne ritorno alle origini dalle quali ci si può pur allontanare per Volontà, salvo farvi ritorno per una necessità ineludibile, l’altro spunto di riflessione è l’ineluttabilità della condizione familiare che porta a ‘decisioni obbligate’, all’unica via percorribile, quella che si conosce: “Il libero arbitrio è relativo. L’uomo sceglie la strada che conosce, la via più semplice; ecco perché è importante far conoscere ai ragazzi delle alternative” ed è questa forse l’unica via di salvezza, l’unica escatologia per uscire dal circuito del male che produce altro male.
“Il parroco, Don Raffaele, nonostante i suoi dubbi e le sue perplessità, torna nel quartiere che per circostanze contrarie alla sua volontà era stato costretto ad abbandonare, e alla fine decide, suo malgrado, di tornare nella propria terra per dare una possibilità di riscatto ai ragazzi che ci vivono” conclude la scrittrice di origini salentine; senza una luce guida è difficile, se non impossibile, uscire dal buio del degrado.
Si scoprirà che il male e bene possono mescolarsi e che esiste una “zona grigia della medialità”, quella raccontata anche nei romanzi di Primo Levi, inesplorata, sconosciuta dell’animo che in determinate circostanze, inaspettatamente affiora, e che dunque non ci sono anime completamente pie, o viceversa, assolutamente malvage.