Il nostro parlare è un insieme di nozioni acquisite da tempo. Usiamo termini a cui attribuiamo significati spesso ignorando lo sfondo culturale entro il quale sono maturati e le conseguenze che tale contesto ha generato. Questa riflessione è stata al centro di un incontro che la F.I.D.A.P.A. di Potenza, presidente Licia Viggiani, ha organizzato il 27 marzo 2015 presso la sala del Campanile di Palazzo Loffredo. Il sessismo della lingua italiana è stato il titolo di un momento che ha analizzato il nostro patrimonio linguistico, certamente ricco e variegato, ma fortemente androcentrico, come ha fatto notare la relatrice Patrizia del Puente, docente di Glottologia e Linguistica dell’Università degli Studi della Basilicata.
“La lingua non è qualcosa di arbitrario ma è frutto dell’esperienza di un popolo. In essa risiede il suo modo di credere e di sentire” ha esordito la professoressa impostando il ragionamento su parole e modi di dire oramai normalizzati. Su regole linguistiche che hanno definito la grammatica italiana e dalle quali è possibile ricostruire la genesi di un linguaggio che, come ha fatto notare la Del Puente, ha forti connotazioni maschili. Frasi come: “ L’uomo è la misura di tutte la cose” oppure “la paternità di un’idea” sono la testimonianza di un processo che ha inglobato il concetto di donna in quello maschile, omnicomprensivo e unilaterale, che non consente quello inverso, come bene spiegano le parole “gli italiani” insieme di donne e uomini, e “le italiane” insieme solo di donne. Oggi la “comodità” del parlare ha finito per far accettare inconsciamente una sorta di subordinazione che ha portato le donne a credere che l’adesione al genere maschile comportasse un aumento di valore del ruolo: le parole “sindaco”, “avvocato” per esempio. Eppure linguisticamente è possibile la trasposizione al femminile dicendo “sindaca”, “avvocata” e nemmeno “sindachessa” o “avvocatessa” che utilizzano il suffisso “essa” di derivazione greca con il tempo divenuto, ha precisato la docente, peggiorativi. Con le sole eccezioni di “dottoressa, “professoressa” e “studentessa” connotate, al contrario, in senso positivo. E c’è il paradosso che anche la medesima parola ha finito per assumere significati profondamente diversi. Si pensi a “il governante” e a “la governante” che definisce un valore accrescitivo solo per il primo. Eppure il genere è neutro.
La lingua sappiamo non è qualcosa di statico, si modifica ma deve mutare prima il pensiero di una società. Il guardare indietro al percorso storico-sociale consente di analizzare un presente che solo da 30-40 anni si interroga sulla linguistica di genere come veicolo verso la completa parità. Convegni, dibattiti su questo tema, ha suggerito Patrizia Del Puente, possono servire a scalfire quel substrato culturale tramandatoci da anni che impedisce il cambiamento pur giuridicamente sancito dalla Costituzione che ha abolito ogni forma di discriminazione. La legislazione si è poi adeguata istituendo organi a tutela di questi principi. Anna Maria Salvi, docente di Chimica Analitica della stessa Università presente all’incontro, è presidente C.U.G., Comitato Unico di Garanzia dell’Ateneo lucano. Questi Comitati sono stati introdotti dalla L. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) allo scopo di contribuire ad ottimizzare all’interno delle Pubbliche Amministrazioni la produttività anche attraverso la realizzazione di un ambiente di lavoro caratterizzato dal rispetto dei principi di pari opportunità, di benessere organizzativo e dal contrasto di qualsiasi forma di discriminazione e di violenza morale e psichica al proprio interno. A questi significativi provvedimenti, però, si deve affiancare la conoscenza e la coscienza delle cose da parte di tutte e tutti affinché le donne possano acquisire il proprio spazio sociale anche attraverso l’uso di termini di genere femminile autonomo. Iniziando a sostituire la parola “uomo” riferita genericamente con la parola “persona”.