Gli oppositori vedono, soprattutto nell’attacco a quel che ancora resta dell’art. 18 il tentativo di una restaurazione maturata e alimentata accanitamente dopo i decenni di crescita dei sindacati e delle logiche della contrattazione politico-aziendale, quasi un redde rationem pervicacemente auspicato ed atteso. Si rileva come il mercato del lavoro sia con la previdenza quello che ha subito il maggior numero di interventi riformatori innanzitutto – incredibile ma lo ha rilevato anche la Fornero- senza che sia stato raggiunto un risultato efficace, essendo sotto il livello europeo per quanto riguarda l’occupazione, soprattutto delle donne e dei giovani, mentre la unificazione di cui parla il governo è intesa al peggio, con una svalutazione interna giocata tutta sulla riduzione dei salari.
L’altro aspetto è che malgrado le promesse di fatto verranno drasticamente ridotte perché i soldi non ci sono; la corsa del Presidente del Consiglio, ancora una volta, sembra finalizzata più ad una comparsata da vendere alla UE che minimamente efficace per ridurre i problemi del mercato del lavoro in questo Paese. Cosa che nella direzione PD hanno ribadito D’Alema, Bersani, Civati, Cuperlo, Fassina se pure in forme e linguaggi diversi. Il documento presentato da Fassina e altri, non discusso, chiede il legame tra legge di stabilità e disegno di legge delega e di uscire dalla genericità, di chiarezza su obiettivi, patee interessate da Jobs Act, di cosa parli il documento della Presidenza riferendosi allo stanziamento di 1,5 miliardi di euro; viceversa di contrastare la precarietà, immettendo tutele in una visione universale del diritto e dei diritti, con un impegno coerente di tutto il PD.
Le opposizioni, per quanto risultino nella Direzione minori e non ancora unitarie, non sono isolate nel coro generale di voci che si alzano nel paese. Anche i partiti che avevano dato il segno di voler continuare ad esistere a sinistra per confermare un impegno in tema di diritti, di crescita, di lavoro, ed hanno rinunciando a questo ruolo per le scelte di parte delle dirigenze di garantirsi del patto di sostegno a Renzi, vivono la pressione di un forte dissenso. C’è un grosso movimento nell’area della sinistra che investe le compagini politiche intorno al PD. Segno che c’è una ipotesi di un filo conduttore giocato sulla prospettiva di agire contro la logica che le regole della economia, soprattutto di quella finanziaria, che soffoca quella reale, possano intervenire sulla Costituzione riducendola ad una carta depotenziata.
Se De Bortoli del Corriere definisce la personalità di chi guida il governo ipertrofica anche rispetto alla squadra di governo complessivamente debole, e coglie un rischio, che tutto si riduca ad una battaglia tesa ad accreditare il super-ego resta fondata, interessanti sono anche altre prese di posizione. Formica incolpa il governo Renzi di velleitarismo e opportunismo, sottolineando soprattutto il fatto che non si muova tenendo come riferimento la politica, i partiti con la struttura dello stato, quindi dei sindacati, e della produzione, ed infine l’informazione con il rischio di debolezza quantitativa e soprattutto qualitativa a delle iniziative.
Il movimento 21 giugno che raccoglie anime della sinistra socialista, orientate a riforme del mercato del lavoro, si è incontrata a Roma il 20 settembre su Il lavoro che non c’è, tra cui Gim Cassano, Felice Carlo Besostri, Biscardini, Turci, Stefano Sylos Labini che hanno espresso e motivato la netta contrarietà sulle scelte del governo Renzi, sottolineando tra l’altro che non è possibile nessuna ripresa se buona parte del paese è consumatrice e non produttrice. Sembrano incontrare le affermazioni di Fassina quando questi ricorda che il compito della forza della sinistra è nella lotta alle ingiustizie, alle enormi e insopportabili disuguaglianze, alla concentrazione del reddito e delle ricchezze accumulate grazie ad una globalizzazione deregolata che ha permesso alla finanza di spremere lavoratori e piccole imprese.
Il discorso che Renzi fa sul 40% di consenso è di una ambiguità spaventosa. Volutamente ignora – non può non saperl o- che è il frutto della paura degli Italiani, attenzione, di quelli che hanno votato, che si potesse uscire dall’Europa. Quel 40% non era la consegna del comando ad uno solo, non era la consegna a mettere mano alla costituzione, di accordarsi con il padrone di F.I., di ridurre le tutele, di ridurre il rapporto con i sindacati e gli altri soggetti della società. Modernismo e giovanilismo non sono barattabili con i valori della cultura del lavoro e della democrazia. Questo è, di fatto, il messaggio che si coglie in quel voto contrario espresso nella Direzione del PD, malgrado la corsa in America che Renzi cerca di poter vantare a titolo di credito. Gli ricordano che le scelte che si fanno in democrazia, si costruiscono con il confronto, la condivisione e, aggiungono, il rispetto, soprattutto all’interno di un partito.
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