Nel nostro Paese, questa patologia colpisce 1 donna su 10 tra i 25 e i 35 anni d’età
“Quanto sei esagerata! Che vuoi che sia, tutte abbiamo il ciclo”; “Hai la soglia del dolore troppo bassa”; “Smettila di lamentarti sempre, non sei malata!”: sono queste alcune delle tante esclamazioni, risultate molto spesso inappropriate e sconfacenti, rivolte a giovani donne che soffrono di endometriosi. Considerata il più delle volte una “malattia invisibile”, l’endometriosi è una vera e propria infiammazione cronica benigna degli organi genitali femminili e del peritoneo pelvico, causata dalla presenza anomala di cellule endometriali che, in condizioni normali, si trovano solo all’interno dell’utero. Nel nostro Paese, una donna su dieci soffre di endometriosi e il
target maggiormente interessato riguarda le donne tra i 25 e i 35 anni d’età. A oggi, questa patologia è ancora poco studiata e non esiste una cura definitiva. In tanti, inoltre, faticano a riconoscere
quanto sia invalidante e, probabilmente, uno dei dolori più grandi per le donne che ne soffrono è proprio quello di non essere viste, ascoltate e credute.
Lo sa bene la 27enne Simona, originaria di Policoro, che sin da ragazzina ha dovuto fare i conti con questo “nemico invisibile”: «Avvertivo forti dolori già dai primi cicli mestruali. Con il passare
degli anni, questi dolori si sono amplificati notevolmente, sino ad arrivare a episodi di svenimento, nausea e cefalea. Quando provavo a esternare il mio malessere venivo subito zittita con frasi del tipo: “Sei troppo esagerata”. Eppure, in quegli istanti, era come se tanti coltelli mi stessero trafiggendo contemporaneamente. Ogni semplice azione quotidiana, per esempio fare una doccia, era divenuta un incubo: e, allora, finivo con l’accartocciarmi sul letto della mia stanza, nella speranza che quei dolori potessero svanire, almeno temporaneamente. Molto spesso, ero costretta
ad assentarmi da scuola o da lavoro perché il dolore era così fuori controllo da costringermi quasi a stare alle sue dipendenze».
«Per tutti i medici a cui mi sono rivolta – prosegue Simona – si trattava soltanto di colon irritabile e una pianificazione alimentare ad hoc avrebbe potuto contribuire a ridurre notevolmente quei fastidi. La diagnosi è arrivata dopo un bel po’ di anni. Non si trattava di colon irritabile, quel dolore aveva un nome: endometriosi al 3° stadio». Simona non sapeva cosa fosse: temeva potesse trattarsi di qualcosa di grave, ma il semplice fatto che quel dolore avesse un nome e non fosse frutto della sua immaginazione come in molti pensavano, un po’ la rasserenava: «Tutto ciò che stavo attraversando era reale. Tuttavia, la fase di accettazione post-diagnosi non fu affatto semplice:
giorno dopo giorno, il mio corpo era sottoposto a continui cambiamenti. Nello specchio vedevo una nuova versione di me che non mi piaceva affatto: ai miei occhi, quella sagoma riflessa risultava sgradevole fisicamente, quasi come se avessi fatto abuso di cibo spazzatura. Mi sentivo
un’estranea all’interno del mio corpo».
«Ci vollero diversi mesi – aggiunge Simona – prima di accettare, almeno in parte, l’endo-belly, vale a dire la “pancia da endometriosi”. Da un anno a questa parte, non so più cosa significhi
indossare un paio di jeans. Sto imparando a fare amicizia con la mia nuova fisionomia, a non provar vergogna delle cicatrici post-intervento. Sto imparando a convivere con la stanchezza cronica, con i dolori muscolari e tanto altro. Non è facile, non lo è affatto, ma spero che una buona campagna di sensibilizzazione sulla tematica possa, in qualche modo, aiutare a comprendere che l’endometriosi non è un semplice mal di pancia collegato al ciclo mestruale: l’endometriosi esiste ed è una patologia e, come tale, deve essere conosciuta e studiata. Oggi ti vedono truccata e ben vestita e magari il giorno dopo ti ritrovi in ospedale con le flebo per i forti dolori. L’endometriosi è
un “imprevisto”: non sai mai cosa succederà domani, per questo cerco di vivere appieno il mio presente».
PERCHÉ È IMPORTANTE PARLARE DI ENDOMETRIOSI
Oggi più che mai, accendere i riflettori su questa malattia non è affatto scontato. La storia di Simona rispecchia quella di tante altre donne che ancora faticano a essere credute. Parlarne apertamente senza il timore di giudizi altrui è il primo passo verso il riconoscimento di un sentimento di empatia da parte di una comunità che può aiutare le donne a non sentirsi sole, partendo dal lavoro e in ogni altro tipo di ambiente sociale. In tal senso, i social media rappresentano i contenitori privilegiati per creare community di ascolto e supporto e fare in modo che ogni esperienza personale possa essere da esempio per tutte le donne che soffrono di endometriosi. Non bastano solamente delle terapie mediche mirate per migliorare la qualità della vita: acquisire, invece, sempre più consapevolezza su questa malattia potrebbe contribuire a fare la differenza.
Miriam Galgano