Per il 23enne lucano, all’epoca dei fatti appena 13enne, il dialogo in famiglia ha fatto la differenza
Oggigiorno, specialmente tra i giovanissimi, è sempre più frequente imbattersi nel fenomeno del bullismo. Prepotenze, umiliazioni, vessazioni, piccole o grandi torture psicologiche perpetrate con sistematicità da parte del cosiddetto “branco” nei confronti delle “vittime prescelte” sono alla base di questo complesso meccanismo intimidatorio. E, così, qualsiasi luogo di aggregazione sociale
finisce col trasformarsi in uno scenario fatto di violenze e comportamenti aggressivi. Uno dei luoghi privilegiati dai bulli resta la scuola: è proprio tra i banchi scolastici che si consumano, spesso e volentieri, episodi di bullismo. Il modus operandi resta sostanzialmente invariato: il bullo, che può agire da solo o assieme ai suoi fidati del branco, attacca un coetaneo giudicato come debole.
Alla base di queste azioni tracotanti si insinuano meccanismi di fragilità emotiva tipici di ambienti familiari disagianti che accentuano nel bullo la mancanza di controllo degli impulsi, la difficoltà nella gestione della rabbia e una scarsa empatia che, contrariamente, caratterizza la vittima. A
questo punto, il soggetto inerme può decidere di non reagire per paura di ritorsioni. Sono ancora pochi, purtroppo, gli adolescenti che riescono a chiedere aiuto alla famiglia o alla scuola e, ancor meno, quelli che riescono a mettere da parte la paura e affrontare i bulli in maniera pacifica.
Lo sa bene il 23enne lucano Marco, nome di fantasia utilizzato per tutelare la privacy dell’intervistato, che nel pieno della sua adolescenza ha dovuto far i conti con la sua bravura scolastica, divenuta motivo di derisione e scherno da parte dei suoi coetanei. «Non ho mai avuto grosse difficoltà nello studio, sono sempre andato volentieri a scuola fino a quando il mio nome, beh il mio nome non era più Marco: ero diventato il secchione sfigato o almeno così si divertivano a chiamarmi alcuni compagni della mia ex 2ªB. Non pensavo che frequentare le medie potesse
essere così frustante, per la sola “colpa” di impegnarmi in qualcosa, di non farmi trovare impreparato dagli insegnanti, di stare al mio posto e fare il mio, senza voler infastidire nessuno e senza voler sentirmi superiore a nessuno».
«Lo studio – prosegue Marco – dovrebbe renderci liberi e non prigionieri. E io, purtroppo, mi sono sentito per troppo tempo in catene. Ricordo spintoni immotivati, insulti forti, troppo forti per un
13enne da parte di tre compagni di classe che, senza alcun valido motivo, riuscivano a mettere letteralmente a soqquadro la mia quotidianità scolastica. Non potevo uscire dalla classe durante la ricreazione perché temevo, anzi ero quasi certo, che il banco, lo zaino e tutte le mie cose personali sarebbero state scaraventate chissà dove. E allora cercavo di non fare assolutamente nulla: stavo
lì, fermo in un angolino, di fronte all’indifferenza del resto dei compagni di classe che non sapevano se avvicinarsi per chiedermi come stessi o continuare a far finta di nulla, tanto il bersaglio non li riguardava».
Quando Marco racconta la sua storia è difficile non accorgersi della sua sofferenza provata da ragazzino perché, inevitabilmente, qualsiasi tipo di esperienza negativa rompe tutti quegli ingranaggi precedenti per dar spazio a una nuova versione di sé. «Per almeno un paio di mesi, decisi di non raccontare nulla a nessuno, neanche alla mia famiglia. Temevo che chiedere aiuto a qualcuno potesse far degenerare ulteriormente la situazione. Tuttavia, di fronte a una mia non- reazione, gli insulti e le minacce invece di placarsi si intensificavano sempre più. E, allora, decisi di prendere la situazione in mano e cominciai a raccontare quanto accaduto a mia sorella».
Quella confidenza, così intima e preziosa, è stata di fondamentale importanza per Marco: «Per la prima volta, dopo tanto tempo, non mi sentivo più solo. Il semplice fatto di riuscire a raccontare la mia giornata scolastica a mia sorella e cercare di capire assieme a lei come risolvere quella situazione disagiante, mi ha permesso di evadere da quel guscio di insicurezze e timori che i bulli, con le loro cattiverie, avevano accentuato in me. Non avevo nulla di sbagliato e, soprattutto, il mio impegno nello studio non poteva essere minato da coloro che non avevano ancora compreso
l’importanza dello studio per il futuro. In un secondo momento, decisi di confidarmi anche con i miei: la mia famiglia, in ogni occasione, è sempre stata il mio porto sicuro e, anche in questo momento così brutto e fiacco per me, è riuscita a farmi riacquistare, poco alla volta, quell’autostima che stavo rischiando di compromettere per colpa di bulli che non conoscevano la mia storia di vita».
Grazie al supporto della famiglia, le giornate scolastiche di Marco cominciarono a riprendere una piega più serena: gli atteggiamenti intimidatori dei bulli non gli facevano più paura. Marco non abbassava più lo sguardo: proseguiva a testa alta per la propria strada. Chiunque lo avesse accompagnato nel suo percorso di vita sarebbe stato un valore aggiunto; i bulli, invece, restavano solo un ostacolo provvisorio, a cui non dare più importanza. La storia di Marco ci insegna quanto sia fondamentale valorizzare il dialogo e la stretta collaborazione scuola-famiglia per individuare una strategia d’intervento adeguata, al fine di scacciare definitamente la piaga del bullismo e
reimpostare una solida educazione ai valori.
Miriam Galgano