Nuovo appuntamento con la cultura al Parco della Grancia a Brindisi Montagna. Sabato alle 17.30, ospite sarà Valentino Romano, celebre storico del brigantaggio postunitario, con il suo libro “Processo a Crocco, generale dei briganti” . Nicola Manfredelli, presidente del consorzio Eccellenze Turistiche Italiane, dialogherà con l’autore. Nel saggio, edito da Capone di Lecce, Romano ha indagato le carte processuali, depositate presso l’Archivio di Stato di Potenza, e le ha confrontate con le cronache del «Risorgimento lucano», una gazzetta che nell’epoca in cui non c’erano radio, televisioni e social diffondeva le cronache di vita nazionale e non mancò di pubblicare giornalmente la cronaca del processo al generale dei briganti, celebratosi a Potenza nel tribunale, il cui palazzo s’affaccia sulla centralissima piazza Pagano. Dove Carmine Crocco arrivò in carrozza, scortato da carabinieri e guardie regie, come si conviene ad un generale ancorchè prigioniero. Un riguardo che aveva il suo perché e Valentino Romano ne svela le motivazioni. Pagine godibili, quelle di Romano, anche perché la scrittura dell’autore è fluida e non si perde in arzigogolii di maniera. Carmine Crocco Donatelli, pecoraio di Rionero in Vulture, compaesano di Giustino Fortunato e della sua fortunatissima famiglia, una di quelle famiglie che non hanno mai naufragato nei marosi della nostra storia, è descritto nella sua carica di intelligentissimo uomo di campo, di lesto uomo di mano, di furbo combattente più per se stesso e per i suoi interessi che per cause di legittimismo dinastico o di costruzione di nazioni. Crocco non era uno stinco di santo. Nemmeno un eroe. Fu un uomo, che seppe galleggiare nel fango di anni convulsi della storia d’Europa. Se tenne in scacco la metà dell’esercito italiano e per quattro lunghi anni, vuol dire che non era un uomo da poco. Se non concluse la sua vita davanti ad un plotone d’esecuzione o penzolando da una corda, o lasciando la testa sul ceppo e poi infilzata su una picca e mostrata come trofeo da soldataglie comandate da ufficiali, che furono i padri di una tradizione disonorevole delle armi italiane, che non disdegnarono mai di fare del saccheggio, della rappresaglia, della strage i simboli connotativi del loro passaggio in due dei cinque continenti del globo, vuol dire che aveva un’intelligenza, trasformata nella sua migliore delle corazze. Fu un uomo dal concetto di lealtà molto elastico. Combattè col Borbone, combattè con Garibaldi, combattè con Borjes, l’unico comandante che credeva di battersi per la causa di Casa di Borbone, poi abbandonato ad un plotone d’esecuzione di bersaglieri, rubò a chi era ricco ma non distribuiva ai poveri. Valentino Romano documenta il tutto, spogliando, come s’è detto, d’ogni retorica un uomo enigmatico. Il cui più grande enigma fu espresso dalla sua capacità di sottrarsi alla pena capitale, prescritta dalla Legge Pica, sicuramente la più vergognosa delle leggi emesse da chi faceva retorica di una fratellanza italiana. Valentino Romano spiega, e documenta, perché migliaia di meridionali furono assassinati in virtù della Legge Pica e il capo dei capi del brigantaggio meridionale la fece franca. Lo documenta, con precisione storica e onestà intellettuale, servendosi di quelle carte d’archivio, troppo spesso maliziosamente ignorate da chi ha la mania di coltivare ancora uno sciocco nostalgismo dinastico. Un bel libro, questo di Valentino Romano. Un efficace documento storico, utile a spiegare ciò che non si vuol capire.