Il recente convegno sul Testamento Biologico organizzato dall’Associazione Pro Loco di Filiano e dall’amministrazione comunale, al fine di istituire un registro comunale che raccolga e conservi le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT) è un’occasione per affrontare il tema della dignità e fine vita, consenso libero e informato, cure palliative alla luce di quanto disposto dalla legge n. 219/2017.
È bene precisare che il processo che ha portato al concepimento della suddetta legge, è il frutto del lavoro della giurisprudenza italiana a seguito dei casi di Piergiorgio Welby, Giovanni Nuvoli, Eluana Englaro, Fabiano Antoniani (“DJ Fabo”) che hanno dato vita ad un dibattito senza precedenti, dimostrando l’inadeguatezza della nostra legislazione su questa materia.
Grazie al progresso biomedico e biotecnologico è oggi possibile prolungare la vita attraverso la cura di molte malattie, un tempo mortali, anche ricorrendo a tecnologie che permettono di mantenere le funzioni vitali in modo artificiale. Queste possibilità offerte dalla scienza consentono la sopravvivenza in condizioni spesso molto critiche: sopravvivere attaccati a macchinari in condizioni di irreversibilità, o solamente grazie ad alimentazione e idratazione ma senza capacità cognitiva, o finanche sopravvivere solo con capacità cognitiva a senza alcuna abilità fisiologica. Vari ordinamenti nazionali consentono forme di eutanasia (attiva o passiva) mentre la maggior parte la vieta espressamente considerando penalmente rilevanti comportamenti quali istigazione al suicidio e assistenza al suicidio.
Si può facilmente comprendere come il pensiero di essere tenuti in vita in modo artificiale possa, per alcuni, non coincidere con la concezione ideale di una vita ancora degna di essere vissuta. Naturalmente questi pensieri si intrecciano anche con considerazioni personalissime di ordine etico – religioso. Non a caso, è proprio sui temi etici che si è concentrata l’attenzione del dibattito politico che si è sviluppato a partire dalla metà del secolo scorso, in coincidenza delle possibilità offerte dal progresso medico scientifico che ha allungato la vita con forme di sopravvivenza spesso inadeguate al concetto di vita e di dignità umana. Il concetto di dignità umana viene spesso utilizzato come concetto base per tutti i diritti fondamentali che tutelano la vita umana e le scelte dell’individuo in merito alle modalità con cui la stessa deve essere condotta o deve avere fine.
In questa prospettiva, dignità umana significa anche, inevitabilmente, dignità nella morte.
La nostra Costituzione a proposito del diritto alla salute prescrive che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, ne consegue che il paziente, informato sulle sue condizioni di salute e sulle terapie da seguire, può decidere di rifiutare anche quelle salvavita. Questo non esclude però, che il medico, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del trattamento sanitario indicato dallo specialista, ed è in quest’ottica che deve essere calato il dibattito sull’eutanasia.
Bisogna distinguere l’eutanasia passiva da quella attiva. Rientra nell’eutanasia passiva in primo luogo la condotta volta ad alleviare le sofferenze del paziente la cui vita stia già naturalmente terminando; la somministrazione di sostanze (ad esempio morfina) che possano accorciarne l’esistenza; senza tuttavia che esse siano la causa della morte già in atto; la sospensione di terapie che tengano in vita artificialmente un individuo che, senza la somministrazione delle stesse, morirebbe naturalmente: come l’interruzione dell’alimentazione, idratazione o ventilazione artificiali.
L’evoluzione giurisprudenziale ha riconosciuto la legittimità, in alcuni casi, dell’eutanasia passiva e, cioè della sospensione dei trattamenti medici necessari per mantenere in vita un paziente, in particolare a seguito del dibattito sul caso Welby, il quale chiedeva espressamente il distacco del respiratore.
Il caso Englaro, invece, ha creato le condizioni per il soggetto interessato di disporre validamente per il futuro in materia di trattamenti sanitari, e dunque di dichiarare anticipatamente quali trattamenti egli intenda accettare o rifiutare in caso di incapacità futura.
Come già detto, i casi sopraccitati di decisione per il fine vita sono avvenuti prima che nel nostro ordinamento venisse approvata una legge sul testamento biologico. In questo contesto, inoltre, era giunta una risoluzione del Consiglio d’Europa, (n. 1859 del 25 gennaio 2012), che ha raccomandato agli Stati membri di approvare al più presto una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario conforme alle indicazioni ricavabili dalla Convenzione di Oviedo del 1997, primo trattato internazionale sulla bioetica, promosso dal Consiglio d’Europa, rispetto al quale l’Italia non ha mai depositato la ratifica, limitando quindi la sua applicazione nel nostro ordinamento.
Il Parlamento italiano ha quindi infine approvato, non senza colpevole ritardo, la legge n. 219 del 22 dicembre 2017, recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. La legge disciplina in particolare: il consenso informato; il diritto del paziente di rifiutare le cure; la terapia del dolore e la sedazione profonda; il diritto del paziente di rifiutare la nutrizione e idratazione artificiale; i diritti e i doveri del medico con riferimento alla volontà manifestata dal paziente in tema di fine vita; la dichiarazione anticipata di trattamento. Nonostante questa norma abbia rappresentato un indubbio passo in avanti, molte situazioni problematiche restano “scoperte”. Ciò è emerso con drammatica attualità nel recente caso di Fabiano Antoniani (noto con il nome d’arte di “DJ Fabo”), giovane che, in stato di tetraplegia, cecità e mancanza di autonomia nelle funzioni fisiologiche naturali, in condizioni di irreversibilità del suo status, ha chiesto ai suoi cari di voler procedere ad una forma di suicidio assistito all’estero (in Svizzera) per porre fine ad una vita che egli considerava, per come veniva in concreto vissuta, lesiva della sua dignità. Il caso, in particolare, ha riaperto il dibattito sull’eutanasia cosiddetta “attiva”, evidenziando una volta di più la necessità di un intervento legislativo che regoli in modo concreto la materia.