Ruoti ha il vanto di essere il primo paese d’Italia, escludendo la Sardegna, ad avere ancora delle donne che portano «lu custum», e circa l’80% delle famiglie ne conserva l’abito originale indossato dai propri avi. Questi dati confermano la sfumatura emotiva che lega l’abito con chi lo indossa e ne determina finanche l’atteggiamento di tutta la comunità ascrivendo l’habitus al suo significato più puro, inteso come contegno, modo di essere, che conseguentemente porta al sentimento condiviso del «nostro costume».
Sono proprio queste le basi che hanno spinto l’associazione culturale “Recupero tradizioni ruotesi” a fare un lavoro di ricerca e recupero di questo grande patrimonio che è l’abito ruotese. In particolare il presidente dell’associazione, Felice Faraone ha alle spalle circa vent’anni di documentazione articolata per lo più da materiale fotografico messo insieme dall’eredità di ciascuna famiglia e in particolar modo da quella Iacouzzi. Le prime foto di cui si ha testimonianza, risalgono al 1850 riconducibili al fotografo ruotese Nicola De Carlo, che immortalavano le donne appartenenti al ceto borghese del paese, difatti sino agli inizi del secolo scorso, l’abito tradizionale era ad appannaggio delle famiglie benestanti, poi man mano è diventato di uso comune entrando a far parte della “dote” che ciascuna ragazza in età da matrimonio, doveva possedere.
Guardando il vasto archivio fotografico di Felice, è possibile apprendere tutta una serie d’informazioni: in primo luogo, si può costatare che il modello del costume è rimasto pressoché lo stesso, ad eccezione della «cammis ͤ» e dell’«arricc ͤ» che nel corso degli anni risultano meno vistosi; con il copri spalle «juppòn ͤ» si segnavano le tappe della crescita di una donna: durante l’infanzia non veniva indossato, infatti, l’abito era composto solo dal «crètt ͤ» e dalla «cammis ͤ», nell’adolescenza invece, era a mezza manica, mentre dalla giovinezza in poi copriva anche le spalle. Ogni costume era unico e rispecchiava la famiglia di appartenenza, perché la «cammis ͤ», «lu juppòn ͤ» e «lu ῠand ͤsin ͤ» erano ricamati e arricchiti secondo i gusti e le disponibilità.
Per le nozze l’unico cambiamento era dato dal colore della stoffa che poteva essere rosa, celeste oppure giallo, novità arrivate dopo l’ondata migratoria in America: memorabili erano, infatti, i “pacchi” di tessuto inviati dagli immigrati ruotesi alle proprie famiglie, che avevano ragazze in età da matrimonio. Il copricapo «pann ͤ» invece, era tassativamente verde, piegato a punta in avanti, oppure piatto sulla fronte e a punta di lato e, veniva indurito con la colla di ciliegio per assicurarne la tenuta. In caso di lutto, sulla «cammis ͤ» si metteva un fiocco nero se il defunto era il marito o il figlio, marrone per gli altri gradi di parentela.
Il senso di appartenenza verso «lu custum ͤ» era talmente forte, tanto da indossarlo anche in punto di morte.
Con il passare del tempo tutto questo è andato perduto ed oggi è rimasta la signora Rita Errichetti a conservare l’arte del confezionamento del costume, la quale con meticolosa attenzione studia le foto degli abiti originali e li riproduce; infatti, è grazie alla sua esperienza che possiamo affermare che ogni singola camicia era diversa nel ricamo e nella chiusura dei polsini. La sua passione unita a quella dell’associazione Recupero tradizioni ruotesi hanno come scopo quello di salvaguardare l’abito tradizionale in ogni suo aspetto, in modo da tramandare un patrimonio che è l’essenza stessa della comunità. A questo proposito, nel corso degli anni ci sono state diverse manifestazioni, tra le quali si annovera la “Prima conferenza sull’abito tradizionale femminile di Ruoti” (tenutasi il 17 ottobre 2015), che ha visto la partecipazione della Prof.ssa Silvestrini, etno – antropologa, la quale attraverso le sue competenze, ha illustrato l’importanza che l’abito tradizionale riveste nella ricostruzione identitaria di una comunità, ma soprattutto il “dovere” di conservare e promuovere un patrimonio così unico. In questo senso, è stata avanzata la proposta di creare un museo sull’abito tradizionale lucano, in modo da istituzionalizzare una realtà che è a tutti gli effetti da considerarsi un’opera d’arte.