«Provo meraviglia, avverto l’incanto. Poi, quando parte San Gerard’ prutettor’ e dovrei continuare a ballare con ancora più foga e gioia..divento di marmo: mi blocco e piango come se non avessi mai conosciuto commozione tanto grande».
Ed è quasi sempre così: i giorni che seguono quello dello sciame ottomano che invade pacificamente la via Pretoria della città, spesso provocano questo nugolo di sentimenti. La gente potentina pare uscire dalla festività patronale del Santo piacentino estaticamente stravolta. Se immaginassi che un periegeta d’altri tempi (uno di quelli importanti, con sopracciglio severo, insomma uno di quelli che si fanno studiare a forza tra i banchi di un Liceo), si fosse trovato fortuitamente nel nostro capoluogo il 29 Maggio di centinaia di anni fa, credo che, nel mirare la festa degli abitanti dell’urbe capoluogo, avrebbe sentenziato più o meno così: «Mi ritrovai infine in Potentia: città che se l’avventuriero ne volesse scrutare il reale cuore, potrebbe riuscirvi solo mirando l’urbe accendersi euforica al grido di ‘Evviva San Gerardo!’».
Avrebbe colto nel segno il periegeta. È sconfinata infatti la folla che, il 29 Maggio di ogni anno, si riversa lungo le strade di ‘Potentia’ per essere protagonista della ‘Storica parata dei Turchi’. Protagonisti tanto gli spettatori quanto – e direi soprattutto – il migliaio e più di figuranti che, per una notte, truccandosi da turco, rendono omaggio – solo in apparenza paradossalmente – alla propria fiera identità potentina. Perché è ben noto a chi prende parte alla ‘Festa più bella del mondo’ il fatto che il mascherarsi, il cambiare volto (e nel caso proprio dei figuranti saraceni anche religione!), altro non è che rendere omaggio alla propria storia, perché essa non sia segregata, dimenticata, in uno scaffale da biblioteca. Questa storia ‘turca’, invece, è storia vivissima, respira dei sogni di un intero popolo che, per una notte, rievocando mondi antichi, trova forza e coraggio per guardare con occhi incantati alla propria di storia, a quella quotidianità che, troppo spesso alienante, fa dimenticare l’avventura più entusiasmante da vivere: il proprio presente. Un ‘Cipollino’ che vedi sfilare – esempio su tutti – può evocarti le sembianze del datore di lavoro troppo intransigente e severo; un’odalisca in sinuosa danza, evoca il ricordo di quella ragazza vista solo per pochi istanti, ma decisamente tanto ammalianti da rendere indimenticabile la sua figura. Insomma – potremmo prendere ogni figurante della parata e ripetere il giochino -, la Parata dei Turchi vive, coronata dell’entusiasmo cittadino, perché genera vita, evoca mondi, riscalda sentimenti sopiti, cassati come ‘frivoli’ in fondo al cuore di chi la Sfilata la mira, ammirandola.
«A proposito di sguardi. Nei miei 19 anni da Spadaccino fiero a sfilare, solo uno sguardo ha destabilizzato la mia terribile marcia turca: quello dei bambini. Combatti con foga, gridi di terrore al volto della folla provata da quell’anomala gioia-paura, quando a un tratto, all’improvviso, ti trovi stampati addosso quegli occhi, quei fari luminosi. Vedendoti avvicinare a lui, pure se impaurito, il bambino non indietreggia: ti fissa, scruta i tuoi di occhi – che nel frattempo si sono già inteneriti – e, nel farlo, ti sfida come se, potendo parlare, i suoi occhi dicessero: “Un giorno anch’io sarò al tuo posto, anch’io sfilerò come turco”. È così che avverti, improvvisamente, questa inconsapevole eredità di sentimenti che, nel solo marciare, stai consegnando ai sogni di un ragazzo e… ricordi. Ricordi te bambino, con i tuoi occhi che anelavano a sfilare, temibile moro, troneggiante e impettito con lo scudo orgogliosamente esibito, quasi come estranio arnese a schermare la titubanza e la paura, a difenderti dal cupo bagliore dell’illusione. È un gioco epifanico all’infinito. Sei tu ora, lì, al soldo di ‘Civuddin’, a ricordare il tuo retaggio, di come tu sia parte della ‘Festa più bella del mondo’: sei frutto di un’eredità preziosa – presidio di tradizione e di memoria -, consegnatatati da tuo padre, in giovinezza anche lui – come te oggi – turco nella Parata».
Immagino sempre il periegeta, a questo punto, chiosare così il proprio fantomatico capitolo su “La Terra chiamata Lucania”: «Qui (in Potentia) si cammina in un solco profondo, quello tracciato dalla storia di mille padri e madri che, a buon diritto, offrono orgogliosamente i propri figli come i “figli di Potenza”».