Don Giuseppe Carmelo Emanuele Stolfi, noto a tutto il popolo aviglianese come “don Peppino”, classe 1921, lo scorso 15 luglio ha compiuto ben 70 anni di sacerdozio. Un ministero servito con attenzione ai più bisognosi, un uomo umile, simbolo del buon pastore per tutta la comunità.
Qualche giorno dopo questa commemorazione l’ho incontrato, per una chiacchierata, nella sua casa in Piazza Gianturco, umile ma ricca, ricca di cultura: pochi arredamenti ma tanti, tantissimi libri e giornali, foto e manifesti, segno di una vita trascorsa nella conoscenza. Dalla sua finestra si scorge gran parte del paese e si odono tutti i suoni e rumori della città, ma, tra tutto, mi indica di guardare dritto: un quadro della Madonna del Carmine, sito in Piazza, è proprio di fronte a quel balcone; quella Madonna che ha guidato tutto il suo cammino. Nonostante la sua veneranda età di 94 anni ha ancora un forte carisma, che ti pervade e quasi ti incanta. Seduto sulla sua poltrona, sempre con la talare nera, segno di un “prete d’altri tempi”, si pone in meditazione, per abbandonarsi ai suoi ricordi, che gentilmente mi regala.
Don Peppino, partiamo dal principio: come è nata la sua vocazione e come si è sviluppata negli anni?
Io ero un ragazzo molto vivace, avevo una mamma “carabiniere” che doveva badare non solo a me, ma ad altri sei figli, doveva pensare al marito tornato dalla guerra ferito da una pallottola al fianco, mentre tentava, incautamente, di soccorrere un compaesano, e doveva pensare al negozio di tessuti che aveva in Piazza. Non avevo, pertanto, nessuna attenzione da parte dei genitori. Mia sorella Rosa mi faceva da mamma, ma io non riconoscevo la sua autorità e trascorrevo una vita avventuriera, senza alcuna guida. A fine giornata tornavo a casa e inevitabilmente ricevevo da mamma una scarica di bastonate, nel tentativo di frenare la mia vivacità, ma non era quello il sistema giusto. Fino a 11 anni per me è stato un purgatorio, se non un inferno. Non avevo troppi amici. C’era questa vivacità infantile che sviluppavo in maniera drammatica, perché ogni sera mamma si sentiva in dovere di rimproverarmi. A 11 anni una mia zia di Cava dei Tirreni disse a mia madre che nella frazione di San Pietro si apriva un vocazionario e le suggerì di mandarmi lì a studiare. Rimasi fino a maggio, ma non ricevetti un granché di istruzione, perché era un istituto nuovo con un solo sacerdote. A maggio un paratifo mi riportò a casa; mamma era disperata e così si rivolse a Don Peppe Telesca, per avere consiglio. Questi, sorpreso della sua domanda, gli consigliò di mandarmi al Seminario di Potenza dove Don Nicola Stolfi, cugino di mia madre, insegnava lettere. In seminario ripresi gli studi e mi salvai. Già al maestro di scuola elementare Salvatore Morlino, un pomeriggio, risposi, nella mia esuberanza infantile, che da grande “m vulìa fa preut” e i miei compagni, all’uscita da scuola, volevano picchiarmi, però fui salvato da una mia zia che passava di lì. Dopo questo episodio mamma decise di mandarmi in seminario. Così mi sono salvato dalla strada.
L’intervista completa nel Lucano Magazine!!