Il mio soggiorno è proseguito leggendo una decina di libri in contemporanea, costume che mi tormenta da sempre, ma che mi fa sognare. Un libro sogna. Il libro è l’unico oggetto inanimato che possa avere sogni. Quando sono solo, amo leggere più di ogni altra cosa.
Ora, per esempio, sono le 15:00, il sole brucia la pelle ed io me ne sto seduto con la schiena appoggiata ai vetri esterni, ad aspettare di ustionarmi. Ho sulle ginocchia un vecchio libro, trovato sulla mensola dell’ingresso. “Un libro molto intenso e triste, ben scritto. Peccato che l’autore non abbia continuato a scrivere”. Così c’è scritto a matita sul retro. Parla di minacce, intimidazioni, soprusi, ricatti, pestaggi. È ambientato negli Stati Uniti. Cerco sul web e scopro che Hunter Evan, autore de Il seme della violenza che ho fra le mani, è “lucano”.
Evan Hunter, ovvero Salvatore Alberto Lombino, era originario proprio di Ruvo del Monte. Resetto. Guardo meglio su altri siti. Ho il timore che la mia sia suggestione. Ma non lo è, “sulle ali dello spirito santo”, leggo che: “Era originario di Ruvo Del Monte l’autore del film di Hitchcock fra i più terrificanti della storia del Cinema. Evan Hunter o ancora Ed McBain sono solo alcuni degli pseudonimi con i quali firmava i suoi romanzi, soprattutto polizieschi. Con questi due pseudonimi, ma non soltanto con questi, Salvatore Alberto Lombino firmò molte delle sue opere.
Ma le sue origini affondano nell’Appennino lucano. I genitori partirono nel 1900 da Ruvo del Monte alla volta di New York City, dove lo scrittore nacque il 15 ottobre 1926. Nel 1952 aveva ottenuto l’autorizzazione a cambiare il proprio nome in Ed McBain, perché, sosteneva, “con quel nome italiano chi mai avrebbe pubblicato i suoi romanzi?” Centinaia sono i romanzi pubblicati, e molte sono le sceneggiature, firmate non solo con lo pseudonimo Evan Hunter. Quello di Ed McBain è ad esempio la firma della sua vasta produzione poliziesca. Fra gli altri pseudonimi usati figurano anche Richard Marsten, Hunt Collins, Ezra Hannon e Curt Cannon.
È con Evan Hunter che ha siglato quelli che sono probabilmente i suoi romanzi di maggiore impegno: “Il seme della violenza” (The blackboard Jungle, del 1954) da cui l’omonimo film, e la sceneggiatura originale del film “Gli uccelli”. Si può dunque affermare che il film fra i più raccapriccianti di Hitchcock, e della storia del Cinema, ha un cuore dalle radici lucane”. Chiedo a zi’ Peppo e lui: «uaglio’, quisti so’ pàisi di pazzi, bevitori, mistificatori e bugiardi e qualcheduno buono ha avuto origine pure da Rùvë! Che ti credi».
A Sant’Arsenio non possono capire, e nemmeno a Potenza o a Matera, perché la loro è una cultura nichilistica. Non hanno visionari come zi’ Peppo o Vinicio, ma solo analisti nei loro fottuti cervelli.
Il mio soggiorno, chiaramente, continua, fra alti e bassi, alture e pianure, acuti e contrabassi. Ho la netta sensazione di essere stato buono con la vita, per quanto cattivo possa essere stata spesso verso me stesso.
Sto perdendo tutti i treni in un evento che li invoca. Mi perdo spettacoli e mi perdo Vinicio, ma non mi perdo d’animo, che nel vecchio ho una buona compagnia anche se non facciamo coppia fissa. Incontro, casualmente, anche Franco Bassi e Chicco Salimbeni. Quello del Fuori Orario, che ha lasciato dopo vent’anni con un libro e colui che quel libro, in pubblico, lo legge. Che di mestiere fa l’attore. Li ri-conosco, che li leggo su Facebook, ci scambio qualche battuta a conferma che, mentre Vinicio, fra timidezza e ragione, persevera nel suo impacciato modo di porsi – disponibile, ma scostante il giusto – io non so più se vado in giro appresso a lui o allo stuolo ramificato dei suoi vari complici. Ero venuto per una cosa e ne ho trovata un’altra, ma non mi lamento. Anzi. Spero solo di poter incontrare, vis a vis, Capossela. Per stringergli la mano, almeno. Per dirgli di un mio progetto e per nutrirmi, anche solo per un attimo della sua energia.
Lui ha acceso le luci in un paese che, anche se più grosso di Ruvo, non ha nulla in più. Anzi ha un zi’ Peppo in meno. Si in meno, che nella notte fra il 28 e il 29 agosto, nel mentre mi dividevo fra il Gigante e il Mago, medicine man tra frontiera e burlesque, cucine d’amore e separazione, un ictus ha rapito Giuseppe Grieco, alias Peppo re Rùvë. Stasera sono solo in una casa vuota. Apro una bottiglia di “Stringitùr”. Non è male. Di andare a Calitri non se ne parla. Andrò al bar a chiedere notizie. Zi’ Peppo è grave, ma non è morto. In questa sera da lupi sento il mio mondo alla deriva come non l’ho mai sentito. Fuori il vento ulula come, per gioco, faceva il mio amico nei boschi. Bevo un altro sorso di vino e penso che sto facendo cose che non ho fatto mai. Parlo da solo, leggo ad alta voce e canto camminando nella stanza polverosa. Ho anche la netta sensazione che il vino pigramente disidrati con l’alcol i pensieri, apra le porte della percezione e renda inutile ogni delucidazione. Mi sento come Vinicio Capossela sul palco, perfettamente a mio agio. Mi metto pure un vecchio cappello che mi fa sembrare un mezzo mafioso. La bottiglia è vuota. Non canto più, ma arroto parole sempre più solenni, sono trafitto da un raggio di epos, in mezzo al niente. E al disopra di tutto sento che, a parte zi’ Peppo, non mi manca niente. Il mio secondo lavoro è scrivere, ma è fatica che non mi porta guadagno. Che sforzo, però, raccogliere parole da terra e impilarle nei racconti. Ma forse è un vizio. Che scrivo perché devo.
Quasi per mestiere, che l’ho promesso ad Albina, ma sento che se non opponessi resistenza l’ebbrezza, “sulle ali dello spirito santo”, mi porterebbe pacatamente alla quiete. Ho fatto una sudata tremenda e non desidero altro che mettermi a mollo nell’acqua tiepida e lasciare che l’alcol esca fuori fino all’ultimo residuo. Riempio la vasca. Il rumore dell’acqua che sgorga dal rubinetto comincia a ingombrarmi, come un martello, la testa, spaventandomi, come se anch’io rischiassi di scorrer via. Fanculo anche al bagno.
È sabato, l’attesa è finita. Stasera canta Capossela, ma qualcuno ha tirato le cuoia, come si diceva nel vecchio west. Sono andato al bar a fare colazione e, sulla bacheca delle affissioni pubbliche, ho letto il manifesto funebre che copriva parzialmente quello di un recente concerto di Luca Carboni. “Giuseppe Grieco di anni 72. Ne danno il triste annunzio i figli, la moglie e i nipoti tutti”. Me compreso, ho pensato.
All’ultimo giro per Ruvo del Monte, prima di andare a Calitri, ho visto, davanti al bar, una mezza dozzina di vecchi, rugosi, rancorosi, avvelenati, sospettosi lupi di montagna. Non dicono nulla, ma i loro occhi dicono tutto. Guardano i riflessi del sole attraverso le crepe degli sguardi. Chissà quali pensieri abissali, chissà quali storie, quali reminiscenze, quali visioni. Chissà quanti di questi saranno parenti alla lontana di Evan Hunter, ovvero Ed McBain, ovvero Salvatore Lombino, un misconosciuto orgoglio lucano. A Calitri consegno una lettera a Vinicio, ma lui mi dice che non è certo che la leggerà. Una persona meravigliosamente semplice e complicata nella sua estrema sensibilità. Per delusione o per emozione non riesco a sostenere il suo sguardo.
Saluto Maria che è convinta di non avermi visto troppo in giro poiché in buona compagnia a Ruvo. E faccio in tempo a sentire Capossela, al New Poldo’s bar, di fronte al punto pizza, che, forse, sta rilasciando un’intervista a Gianni Mura di Repubblica: “…pare che i Capossela, pastai di professione, siano arrivati a Calitri da Caposele, dove nasce il Sele che toglie la sete alla Puglia. Mia madre è di Andretta, un paese più piccolo e arroccato. Senza scomodare Omero e l’Odissea, sono cresciuto tra Hannover e Scandiano ascoltando madri, zie, nonne evocare l’Alta Irpinia, i rituali della civiltà contadina, le canzoni e i soprannomi, le masciare e i briganti”. Canterà Il treno? allo Sponz? “Forse sì. Ogni volta che la sente mio padre si commuove”. Senza parentele, pure io. “Essendo materiale commovente, è una canzone da usare con precauzione”. Saluto e ri-parto. In lontananza, nella breve pioggia di fine estate, guardo il posto vuoto al mio fianco e, “sulle ali dello spirito santo”, ri-trovo la mia solitudine. Mi manca chi, facendomi perdere tempo, mi ha stordito con raffiche di lamentazioni, meditazioni o proverbi sapienziali. Ormai me ne posso inebriare del solo ricordo. Pazienza. Pazienza e silenzio. Silenzio. Silenzio e dolore.
Lascio l’Alta Irpinia. Le colline, la campagna, i borghi arroccati, le pale eoliche disseminate e le miriadi di stelle nei cieli notturni. Un viaggio in una R4 è ben lontano dall’essere quel malagevole e austero andare, quella scomodità spartana Ne varietur che si crede dapprima dovere affrontare. Mi compiaccio nel cambiare le quattro marce col cambio con la caratteristica leva sul cruscotto. Torno a inserire, come a vent’anni, la terza col gomito destro. Mi allontano da questo posto, che ho afferrato, ma non trattenuto. Immagino Vinicio, sotto questo stesso cielo, a caccia del suo demone meridiano, lungo i sentieri della Cupa. Per contrasto, contrappasso e soprammercato, quasi mi vergogno dell’andamento tetro e lamentoso che i miei pensieri hanno assunto nelle ultime ore. Nella R4 bianca niente tristezza. Niente malinconia. Anche se col bianco non si scherza, che niente è più terribile di questo colore: una volta separato dal bene… Torno a casa con tanti ricordi rubati.
Flashback che mi ronzano davanti e mi riportano al gusto incancellabile dei giorni passati fra lo Sponz e Ruvo del Monte, in una terra che sta all’incrocio fra tre diverse regioni, Campania, Puglia e Basilicata. E, come Chicco Salimbeni ha scritto su Facebook, vedo Vinicio, alla guida della sua auto non convenzionale, che zigzaga pigramente, al suo ritmo, sulla strada per Calitri, con al fianco Vito, suo padre. Come Chicco non li ho voluti sorpassare, malgrado la velocità da crociera che avevano, perché mi sembrava di profanare una loro intimità. Da una parte Vinicio, col cappello bianco, che si volta, spesso, verso Vito e alza il braccio per parlare, per spiegarsi, e dall’altra suo padre pressoché immobile, che occupa molto meno spazio del figlio. Ma da dietro, da quel poco che non è coperto dai sedili, l’affetto e l’intesa spiccano vividi, come il colore di questa vecchia Mercedes, bianco pecora, che sembra stata fatta apposta per lui.
Grande Vinicio, visionario senza vie di mezzo, capace di aggregare attorno a sé amici e curiosi, artisti, validi organizzatori e scopiazzatori di post che finiscono, poi, col darsi del tu… Non ho seguito il concerto apoteosi per una forma di rispetto verso chi mi ha dato gratuitamente tanto. Ma tornerò, che il risultato, è stato una primavera di pollini d’arte che si sono incontrati, tra i tempi a volte dilatati e a volte compressi degli eventi. Ho avuto la fortuna di capitarci, e ringrazio zi’ Peppo re Rùvë per avermi trascinato via da quel turbine a una periferia, che è diventata epicentro di un mondo che non ha avuto più bisogno di una centralità per fabbricarsi qualcosa attorno. Per avermi fatto orbitare, “sulle ali dello spirito santo”, attorno a un’enorme ciambella celeste senza mai toccare il freno.
Chiamo Teresa per dirle che le chiavi della casetta le ho io. Il telefono è spento. Vabbe’. Riprovo. Nulla. Le mando un messaggio: “Tere’, purtroppo, il tizio che mi ha aperto le porte della percezione e quella dell’abitazione è morto. Peccato era un brav’uomo. Te ne devo parlare urgentemente. Non ci crederai, ma lo piango come un familiare”.
Sono quasi a casa quando ricevo un sms. È Teresa: “tienile tu le chiavi. Me le darai al mio ritorno. Sono a Ruvo del Monte. Quel tizio era mio padre”.
O.S.T. Dimmi Tiresia – Vinicio Capossela
Le vicende e gli eventi raccontati in queste storie sono di pura fantasia e i riferimenti a personaggi realmente esistiti, o fatti veramente accaduti, hanno esclusiva funzione narrativa.