Il Carnevale, il periodo più festoso dell’anno, che va dal 17 gennaio al martedì prima delle Ceneri, definito martedì grasso, deve la sua origine, molto probabilmente, ai Saturnalia Romani, durante i quali era sovvertito l’ordine sociale. Si rifà, però, anche ad altri riti pagani e alle manifestazioni delle Calende di Gennaio.
In Basilicata il Carnevale è molto sentito e caratterizzato da una serie di riti e peculiarità famose in tutto il mondo. Anche ad Avigliano vi era l’usanza di mascherarsi, senza, però, una propria ritualità: tutto nasceva con spontaneità, tra bambini e adulti, che prendevano il nome di Tind’l, sinonimo dialettale di “tinti, sporchi”, perché ci si sporcava con del carbone o del tappo di sughero bruciato, rendendo il viso irriconoscibile; si indossavano indumenti dei nonni o di qualche artigiano. Oppure, spesso gli uomini si travestivano da donne e viceversa, e si girava con prruozz (strumento con ruota in legno molto rumoroso), chitarra e organetto. Era usanza bussare nelle case, soprattutto di amici e conoscenti, dai quali, dopo aver chiesto la licenza di poter entrare, si ricevevano uova, formaggi, salsiccia, e soprattutto vino, che venivano posti in bisacce e barili, portati sul dorso da un asino. Chi non dava nulla era sopranominato zirron’, ossia “avaro”.
Da diversi anni molte associazioni locali, quali APS Terra, Aviliart, Pro loco Avigliano, Spazio Ragazzi, Gruppo Folkloristico Aviglianese, con il patrocinio del Comune di Avigliano, sotto la guida di Renato Zaccagnino, Pietro Santarsiero, Carmelina Iannelli, Massimo De Carlo e Franco Pace, hanno dato vita a una forma al Carnevale aviglianese, con l’obiettivo di poterlo anche esportare altrove. Così, di anno in anno, esso è stato arricchito ed elaborato con nuove figure e riti, tutti ripresi dalla storia e dalle tradizioni locali, come, ad esempio, la mascherata repubblicana del 1799, quando, in occasione della liberazione furono costruiti due fantocci di paglia, simbolo del re e del principe ereditario, che furono portati in giro per le vie del paese e poi bruciati in piazza in un grande falò.
Da allora divenne usanza costruire un fantoccio di paglia, simbolo del Carnevale, nella cui bocca si metteva un imbuto, per farlo ubriacare, e si versava il vino che, attraverso un tubo, finiva in una botte, creando un mix superalcolico, consumato dai partecipanti alla fine della festa. Partendo da questa consuetudine, la manifestazione, oggi, si svolge nei tre quartieri principali del paese (Basso la Terra, Dietro le rocche e Santa Lucia): ogni gruppo ha il suo fantoccio portato su una carriola, mentre si canta la tradizionale canzone “la sauzizza” («bona sera signor patron’, na vota l’ann ven stu carnivalon; s m la vuoi rà na nzè r’ sauzizza […] Carn’val mio r’ paglia osci maccarun’ a crai? foglie!»).
I tre Carnevali di paglia sono stati realizzati, grazie all’ausilio del maestro Franco Pace, in un laboratorio giovanile organizzato da APS Terra: lo scheletro è composto di canne secche, poi riempito di paglia e vestito in modo particolare, come, ad esempio, da maresciallo, con un indumenti tipici delle forze dell’ordine, per prendersi gioco delle autorità militari; il fantoccio tradizionale è, però, l’ubriacone, che indossa la camicia sbottonata e sporca di vino, il cappello e una cravatta storta.
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