La direzione nazionale del PD del 29 settembre si è chiusa con la riconferma di una divergenza assoluta tra due anime evidenti e contrapposte. Quel PD, nato da una fusione che registrammo come una fusione a freddo, vive ancora oggi una difficoltà che deriva dal raggruppamento di forze, culture, intenzioni e intendimenti che sono rimasti diversi perché le radici esperienziali, culturali, ideali sono diverse. Certo, una operazione di “rottamazione” quale auspicata e, in parte realizzata dal segretario di quel partito e Presidente del Consiglio ha cercato di ridurre i margini di questa difficoltà ma la procedura dall’alto della epurazione sortisce ulteriore difficoltà.
L’evento che ha segnato uno dei momenti più caldi della vicenda lucana, la presa di posizione dell’onorevole Folino, è il segno di una sofferenza determinata da una sensibilità su un diverso senso di cosa è un partito, come si gestisca, come si garantiscano i rapporti inter-relazionali all’interno di esso. Ed indica, infine, uno stato di disagio della politica lucana e, siccome Folino è un deputato del Parlamento, quindi riveste un ruolo nazionale, con propaggini a livello nazionale. E viceversa.
Così, nella Direzione Nazionale, se la risultante del voto finale conferma il dominio della dirigenza e del segretario del partito, è indubbio che le ragioni forti espresse dalla opposizione riassumono bene il senso di una differenza che inutili spallucce e dichiarazioni di vittoria non cancellano, anzi rinvigoriscono. Riforme o riformismo? Non è una questione da poco. Gli -ismi in genere creano una certa confusione perché lasciano intendere un orientamento generico e un’attitudine ma non la direzione verso finalità e obiettivi che, viceversa, il termine di origine, nella fattispecie riforme deve prevedere e su cui si stabiliscono convergenze o dissonanze. Probabilmente alla base delle tensioni che stiamo vivendo nascono da questa confusione.
Tutti riformisti? Forse è tempo che non ci si accontenti più di una tale definizione perché è l’ammissione di una genericità di fondo e di un sostanziale qualunquismo o di un abuso modaiolo e modernistico. Si deve andare verso le riforme? Si, perché di fronte alle estreme difficoltà in cui versa l’Italia solo con un impegno serio nel senso di interventi mirati nei confronti delle inefficienze del nostro paese, di vario genere e ampiamente documentate in ogni settore della nostra così contraddittoria società, può far intravedere la possibilità di un cambiamento. Il problema dei problemi è, però, che manca una sintonia sulla qualità delle riforme, su finalità e obiettivi, se vanno nel senso di favorire occupazione, produttività o se invece si sta andando nel senso di una moltiplicazione della precarietà.
Chiarisce il recente viaggio organizzato da Renzi, con Marchionne, certo non un potere debole, e la visita, tra l’altro, alla FIAT Crysler che il manager vanta come suo più grande successo, al di là del fatto che i risultati risultano meno entusiasmanti proprio sulla minore percentuale di vendite della 500 FIAT rispetto alle Crysler. E della dislocazione. In America, però, la situazione economica non garantisce una totale uscita dal tunnel. I repubblicani attribuiscono la ripresa lenta al fallimento del Partito Democratico; i liberal colgono invece in un inefficiente intervento e stimolo contro la crisi, con misure monetarie, investimenti pubblici e una politica più efficacemente keynesiana, la causa prima del perdurare della crisi.
Le proposte di riforme fatte dal governo sin qui, riguardanti sia interventi sulla costituzione e sul sistema elettorale che sul lavoro, continuano ad incontrare opposizione, in parlamento e fra i cittadini – ormai consapevoli come D’Alema ha sottolineato nel suo intervento- perché mostrano finalità e obiettivi su cui evidentemente il consenso non c’è. La questione è stata posta in modo forte nel corso del dibattito. Il senso della tormentata discussione in atto in Italia si riconduce non ad una sterile polemica giocata per garantirsi visibilità ma perché si sta tentando di fatto una riforma del mercato del lavoro e delle istituzionali con una visione che mostra segni di omogeneità che creano inquietudini.
Dietro quel generico riformismo di cui sopra, infatti, ci sono volontà convintamente diversificate che si orientano verso obiettivi e finalità assolutamente diverse, verso visioni contrastanti e alternative. Da un lato il jobs act non ancora chiaro nella sua strutturazione, e l’ipotesi di Ichino che rinvia ad un’ipotetica possibilità di rifarsi al modello danese. Sarebbe giocato su un sistema che andrebbe a sostituire l’art. 18 con un sistema di protezione danese che non dovrebbe metter in crisi chi ha un rapporto di lavoro stabile. Ichino prevede sperimentazioni in cui ci sia il “contratto di ricollocazione”, sperimentazione che dovrebbe mettere a tacere anche chi non vuole innovare.
Punto forte sarebbe la possibilità di scegliere di cambiare lavoro, cosa che in Danimarca è garantito dal golden Triangle composto da Stato, Sindacato e datori di lavoro. Il problema più grosso è, però, determinato dal fatto che gli investimenti nel nord Europa in termini di risorse pubbliche sono alti così che lo stesso Ichino afferma che, mancandone di uguali in Italia, bisognerà aspettare molti anni se non decenni per correggere nel nostro paese il difetto di risorse pubbliche destinate ai servizi del mercato del lavoro, il difetto di know how dei servizi di assistenza, la incapacità soprattutto di intervenire per iniziative di ricerca e addestramento. Ed infine –dice Ichino- per difetto di civic attitudes.
La seconda parte dell’articolo