Tra gli anni ’60 e ’70 molti poeti ed intellettuali lucani lasceranno, come tanta gente normale. Ma c’è anche chi vi resta caparbiamente attaccato, come Franco Tilena, nato a Ferrandina nel 1934, proprietario di un’azienda agricola. Tilena ha pubblicato numerose raccolte di liriche (vincendo importanti premi letterari tra l’altro) che seguono una vocazione intima e raccolta, dalla quale emerge –sfumato ma con tutti i suoi problemi- l’umile mondo lucano.
Complessivamente nei poeti degli anni ’70 viene tratteggiata, con tinte forti spesso, una figura fosca e rassegnata della Lucania. La riforma agraria, le infrastrutture, un lento benessere economico non hanno ancora portato il tanto agognato riscatto.
Se i giovani contestatori degli anni ’70 credono nel Socialismo e nell’impegno politico come una possibilità di riscossa, un poeta meno giovane invece, come Giacinto Ruzzi (Grottole, 1929), si affida alla speranza accompagnata dalla fede religiosa. Come quella di Franco Tilena anche la poesia di Ruzzi è lontana dai toni diretti e spesso violenti dei giovani contestatori, ma non per questo egli rinuncia a fotografare la dura realtà lucana, rivolgendo specifiche accuse a chi non ha fatto nulla per migliorare le cose:
i tramonti non sono più limpidi,
ma arrossati dalla vergogna
di chi ha proclamato impegni
non ancora attuati
Per la prima volta nella sua poesia vi è la constatazione che la civiltà contadina si sta sgretolando (<<Una civiltà si sgretola\tra gli umili paesi\isolati su vertici di pietra>>). Scompaiono così valori, principi, tradizioni e conoscenze, ma rimane un’urgenza di fondo: i braccianti del sud lasciano la propria terra e battono <<le strade del mondo\verso un destino\carico d’incertezze>>.
Ma le orecchie dei politici sembrano rimanere ancora sorde a questa ennesima denuncia di un poeta.