“Maramao, (Amara me) perché sei morto? Pane e vin non ti mancava, l’insalata era nell’orto e una casa avevi tu.”
Antica filastrocca meridionale
Vivere significa anche morire, e fino a quando l’esperienza della morte non ci tocca personalmente, siamo limitati, a vivere, patire e partecipare al lutto degli altri più o meno intensamente. E così che quando si va a dare un ultimo addio ad un defunto ci si trova, spesso, calati in un atmosfera surreale. Anche i funerali sono occasioni di scambio e di incontro. Nelle nostre dimore un brusio rompe quell’ossequioso e apparentemente disinteressato silenzio. Nelle stanze adiacenti a quella in cui si ospita la veglia funebre si sta discutendo di un argomento fondamentale: il banchetto funebre! Della riunione fanno parte, generalmente, le donne della famiglia, giovani e anziane. In base al vincolo di parentela, si devono distribuire i compiti per ristorare la famiglia colpita dal lutto. Le decisioni non sono affatto veloci, anzi! Accordare le mille idee e i mille costumi da rispettare rendono il tutto difficoltoso con il rischio di incorrere in veri e propri incidenti diplomatici. La responsabilità della prima operazione di “Catering” spetta alle sorelle e ai fratelli del defunto. In ordine seguono i cognati, i cugini e via di seguito. Il problema principale è accordarsi sul menù. Unico punto su cui si è tutti d’accordo è evitare cibi che siano specchio di ricchezza e abbondanza: pietanze elaborate, insalata e in primis la carne.
Ovviamente le abitudini che qui riferiamo sono quelle appartenute ad un passato non molto lontano e che continuano a persistere in famiglie lucane in cui ancora si ha il piacere di assecondare i desideri e le accortezze degli anziani capi famiglia. E sono proprio loro a spiegarci che la carne è severamente vietata nei giorni di lutto e che, tutt’al più con uno strappo alla regola, qualche polpettina di carne trita si può confondere qua e la in un piatto di brodo caldo, soprattutto quando è “lutto grosso” e bisogna dare le energie necessarie alla famiglia per reggere all’urto del dolore. L’importante è non dimenticare mai, prima di iniziare a mangiare, di riservare le vivande destinate al defunto: un piatto da riporre in un cantuccio della silenziosa tavolata e un po’ di vino consolatore da far cadere in terra come fosse stato offerto al caro estinto. Ruotando lo sguardo attorno al mondo, nel passato e nel presente i riti funerari cambiano forma in base alle culture di appartenenza e alle credenze religiose, ma il banchetto funebre è sempre stato fondamentale. In America, tutt’oggi, parenti ed amici si presentano alla veglia rigorosamente con vassoi di torte salate, insalate e pasticci freddi per allestire un vero e proprio buffet. Nell’antica Roma, nove giorni dopo la sepoltura veniva versato del vino sulla tomba e venivano allestiti ricchissimi banchetti. Nell’antica Grecia oltre al banchetto e a riti sacrificali venivano istituiti dei giochi funebri in onore del defunto (ricordiamo le gare istituite dal mitico Achille in onore del compagno Patroclo o quelli, di cui narra Virgilio, organizzati da Enea in ricordo di suo padre). Perché poi non azzardare un riferimento allegorico all’immagine di un uomo, seduto ad una tavola imbandita, circondato da amici fidati assorto ad attendere la morte e che “spezza il pane e versa il vino in memoria di se stesso”? Tesi antropologiche e rimandi ad abitudini paleocristiane a parte, il significato del persistere nel tempo di tali abitudini è lampante: si mangia e si beve insieme per esorcizzare, accettare la morte e il vuoto che l’assenza della vita porta con sé. La logica del banchetto funebre è quindi quella conviviale. La famiglia si aggrega e rinsalda i propri legami dinanzi ad una rottura drastica delle vicende abituali. Nel periodo del lutto il tempo si ferma e soltanto con il sostegno delle persone più care si riesce ad elaborare il lutto e superare il momento più sovrannaturale della vita.