Pubblicato nel numero di aprile 2011
In un articolo di Marco Fiorentini sul “Il Sole 24 Ore”, con richiamo in prima pagina, si è tornati a parlare di Chiaromonte e del “familismo amorale”. Noi ne discutiamo con il sociologo Alessio Colombis, che per vent’anni, dal 1973 al 1993, si è interessato, anche se in modo discontinuo, alla ricerca condotta da E.C. Banfield a Chiaromonte negli anni 1954-1955 dal titolo “Le basi morali di una società arretrata”.
Professore, a leggere Il Sole 24 Ore sembrerebbe che a 50 anni di distanza dagli studi del politologo americano, non sia cambiato niente. Anzi…
Parlare ancora oggi del “familismo amorale”, senza prenderne le distanze, significa continuare a diffondere un grave pregiudizio nei confronti della popolazione chiaromontese e lucana in genere, che, rispetto alle altre del Mezzogiorno, era – ed ancora oggi in gran parte rimane – non solo priva di criminalità organizzata, se non eventualmente di importazione, ma anche più genuina e più vicina allo spirito comunitario, e cioè a quell’insieme di valori e principi di reciprocità e socialità che devono essere presenti almeno a un certo livello per riuscire a creare e a tenere legata una comunità, cioè un insieme sociale composto non solo da individui, famiglie e gruppi, ma anche dalle istituzioni locali, che dovrebbero essere finalizzate al sostegno e alla promozione di giuste relazioni sociali, istituzioni da apprezzare solo se gli individui che in esse operano agiscono a vantaggio di tutti i membri della comunità e non solo dei più forti e ai danni dei più deboli.
Entriamo allora più nel merito della questione
Alcuni passi del libro del politologo americano indicano molto bene la situazione esistente nel 1954 a Chiaromonte e chiaririscono le ragioni che spingevano i chiaromontesi a mettere la propria famiglia al primo posto, cosa che sembra ovvia e normale nelle culture di tutte le popolazioni e cosa che, di per sé, non impedisce affatto di dare importanza anche alle altre famiglie che compongono una comunità, famiglie da non considerare necessariamente, sempre e comunque, come nemiche e concorrenti della propria. La priorità alla propria famiglia, in base a un principio di responsabilità familiare, di per sé non ha nulla di immorale, mentre, nel caso dei chiaromontesi, Banfield la considera come espressione e manifestazione di amoralità, e infatti scrive: «Nel tragico universo di Chiaromonte, le condizioni di vita(…) determinano il comportamento degli uomini. In un mondo così oppresso dalla paura dell’avvenire, dovere dei genitori è fare ciò che sia possibile per proteggere la famiglia, e preoccuparsi esclusivamente del suo “interesse”. (…) la minaccia della sventura è incombente, anche per coloro che vivono con gli occhi sempre aperti. Ma, per poco che conti contro le cieche leggi dell’universo, la lotta per il proprio “interesse” è qualcosa – forse la sola cosa – che l’individuo possa fare per dare una qualche protezione alla sua famiglia».
Quindi una delle cause che secondo Banfield aveva prodotto la nascita del familismo amorale era il timore della sventura?
La costruzione di una famiglia era ed è l’assunzione tra due individui di una responsabilità reciproca, che li porta ad associarsi insieme per condividere gioie e dolori, successi e sconfitte, soddisfazioni e preoccupazioni, nascite e lutti, salute e malattia. Ovviamente, la morte di un individuo colpisce innanzitutto i suoi familiari e poi in misura via via minore i parenti, i compari, gli amici, i vicini, i paesani, eccetera.
Se questo è vero oggi, lo era molto di più a Chiaromonte a metà degli anni 50, in quanto le condizioni di povertà rendevano la vita e la morte di un familiare fonte di disperazione. In quelle circostanze, i parenti, gli amici, i vicini e i paesani, lungi da essere percepiti come rivali e ostili, rappresentavano l’unico riferimento, anche se, essendo a loro volta poveri, potevano fare poco per gli altri poveri. Banfield scrive: «I Chiaromontesi vivono in uno stato di continua apprensione; hanno soprattutto paura di cader malati e di morire, lasciando i figli “sul lastrico”, o che i figli possano morire» (…) Fino al secondo dopoguerra quando si diffuse l’uso degli antibiotici, il tasso di mortalità era molto alto. Fino a tempi recenti, era frequente che un bambino perdesse uno o entrambi i genitori prima di raggiungere l’età adulta». Non c’è quindi da meravigliarsi del fatto che questo bisogno di aiuto e sostegno reciproco, questa necessità di farsi carico dei propri familiari, questo stato di incertezza e paura per la morte, la povertà e le malattie catturassero la mente delle persone e le spingessero soprattutto a darsi da fare, essere attivi e sacrificarsi per garantire almeno ai propri cari e a se stessi le possibilità di sopravvivenza.
Quindi una ragionata e ragionevole preoccupazione di assicurare una vita futura ai familiari, viste le costanti e pressanti difficoltà economiche?
Banfield scrive: «(…) E non solo il tasso di mortalità era elevato; la miseria era (ed è) così grave che la maggioranza dei genitori non sono in grado di provvedere al mantenimento dei figli, nell’eventualità della loro morte. Essere orfano significava nella maggior parte dei casi andare a mendicare».
Certamente, un’esperienza così drammatica lasciava il segno per intere generazioni. Ciascuno di noi, tranne forse i più giovani, ha partecipato a un funerale in qualità di familiare o di parente o di amico o di vicino o di compagno di studio o di lavoro, eccetera. Ebbene, partecipando con diverso stato d’animo a diversi tipi di funerali, ciascuno di noi ha potuto sperimentare in prima persona i differenti tipi di legami sociali che di volta in volta lo collegavano al defunto e ai suoi familiari e ha potuto di volta in volta cogliere l’esistenza precisa di tali legami, delle loro differenze, delle loro intensità, del loro valore e della loro importanza. Ciascun chiaromontese di ieri e di oggi, quindi, conosce bene i legami sociali tra gli abitanti e sperimenta facilmente in prima persona l’infondatezza della tesi del “familismo amorale”.
Quindi tra tesi e antitesi Banfield ha emesso giudizi azzardati?
Il torto principale di Banfield è stato quello di avere considerato il chiaromontese come un essere umano disumano, come homo homini lupus, disumanità estranea alle comunità rurali povere degli anni 50, ma invece presente e caratteristica delle “moderne e civili” società capitalistiche di mercato, in cui tutto può essere comprato con il danaro, quasi tutti pensano solo all’arricchimento materiale e una parte crescente degli individui nasce, vive e muore nella perfetta, totale solitudine e/o accompagnati dall’alcol, dalle droghe o dagli psicofarmaci.