Nell’era dell’informazione e dell’informatica, del marketing e della politica fondati sull’efficacia dei messaggi, ci si aspetterebbe che la trasparenza regni sovrana. Quanto più questa parola è usata dalle autorità, tanto più il suo senso tende a diventare vago; secondo uno studio condotto dal New York Times, infatti, quando un rappresentante delle istituzioni afferma di essere trasparente, in realtà intende che “non sta mentendo” o “nascondendo ciò che fa realmente”. Ciò potrebbe suonare vago, d’altra parte anche la vaghezza ha le sue ragioni. Naturalmente, una cosa è dichiarare di essere trasparenti, un’altra esserlo davvero. Nonostante molti leader industriali e capi di Stato giurino di essere votati alla trasparenza, frenare la verità continua ad essere una politica alquanto apprezzata in parecchie organizzazioni. Purtroppo, si può dire di credere nella trasparenza senza praticarla e perfino senza desiderarla.
Lo sforzo di celare la verità all’opinione pubblica è diventato oggi una sorta di “missione impossibile”, a causa dei profondi cambiamenti della cultura globale; tra questi ultimi, il più importante è senza dubbio la diffusione di una tecnologia elettronica alleata alla chiarezza, sviluppo che ha reso la trasparenza semplicemente inevitabile.
Nella nostra cultura all’insegna del “gotcha” (colto sul fatto), nessuna allusione razzista passa inosservata, nessuna truffa da parte di un’impresa può essere sepolta per sempre in un archivio chiuso a chiave, nessun incontro galante può contare sul segreto.
Fino a circa un decennio fa, in mancanza di giornalisti professionisti capaci di scoprirli e renderli noti, certi segreti erano spesso destinati a restare tali; oggi, un qualunque cittadino armato di cellulare e collegamento ad internet può “incastrare” una multinazionale con bilanci stratosferici e perfino fare lo sgambetto ad un governo.