Dal palcoscenico l’essenzialità. Niente distrazioni, tutto deve essere evidente, facilmente comprensibile.
Solo le immagini sono ammesse, i video delle loro lotte per la conquista dei diritti e delle libertà.
Sul palco del teatro Stabile di Potenza, come del resto sugli altri d’Italia dove si è replicata la rappresentazione, l’aria che si respirava era di estrema serietà.
La scena è ambientata in uno studio medico. Due donne sconosciute, diverse d’età sono sedute una accanto all’altra. La più giovane ascolta musica, l’altra sfoglia distrattamente una rivista. La canzone che la ragazza sente nell’auricolare attira l’attenzione della donna vicino; parla della libertà, l’inno delle femministe. Poi le due iniziano a parlare. Ne nasce un dialogo che mette a confronto due generazioni con le loro differenze e i loro punti di vista. Due personalità allo specchio che, dall’analisi di se stesse e dei loro tempi, cercano di capirsi e di capire. Nel loro animo c’è tanta delusione. I loro pensieri e le loro parole sono rivolti ad una società che sembra non averle contemplate nonostante le conquiste del movimento femminista.
Libertà di scelta, consapevolezza dei propri diritti, la parità tra i generi, tutto questo, si chiedono, è reale? C’è una società a misura di donna o è solo un’illusione su cui si cullano le nuove generazioni? Quesiti che emergono con determinazione insieme ai toni di accusa che la giovane rivolge a quella più grande. Perché la realtà non è cambiata? Perché le combattive femministe hanno lasciato i ruoli dirigenziali, economici e politici in mano agli uomini? Perché si sta assistendo alla deriva della donna oggetto? Come mai c’è la mercificazione del corpo femminile? Cosa lungo quel cammino intrapreso così attivamente negli anni ‘70 si è interrotto?
Domande che anche la donna matura trova lecite e a cui sa, vanno date delle risposte. Tra il cinismo e la rassegnazione della giovane, e lo sconforto e un mai sopito ottimismo dell’altra, il dialogo continua con confessioni personali che toccano gli affetti, la famiglia, il lavoro e il modo quasi disperato di farli conciliare in una società che certo non le aiuta. Una corsa continua che la donna ogni giorno fa perché tutto quadri, e spesso a suo discapito, perché un giorno potrebbe ritrovarsi sola. Il dialogo però non è senza esito. Si chiude con una promessa che è anche una speranza. Le due si manterranno in contatto e, chissà, se unite possono riuscire a far cambiare le cose.
L’atto unico, scritto da Cristina Comencini, ha avuto come interpreti Isabella Ragonese e Lunetta Savino e come regista Francesca Comencini. “Libere”, questo il nome dello spettacolo, era inserito in “Aspettando il FestivALfemminile” la manifestazione intitolata a Cecilia Salvia che si propone di far emergere i talenti femminili in tutti i campi del sapere. Alla presentazione (registrazione video di quella teatrale) ha partecipato la stessa autrice che è anche una delle componenti dell’associazione “Di Nuovo” da cui è nata “Libere”. Seppur di recente costituzione “Di Nuovo” ha le idee molto chiare. Essa nasce dagli sfoghi di donne di varie città italiane, diverse nell’età e nelle professioni, stanche ed infastidite dal modo con cui la donna viene rappresentata oggi, in Italia. Seccate ed irritate per quell’immagine femminile proposta poco edificante e per nulla corrispondente alla realtà dove tante donne, con sacrifici e determinazione, portano avanti studi e lavoro. Donne brave che questa anacronistica cultura maschilista non valorizza anzi penalizza costringendole al precariato o peggio alla disoccupazione. Niente lavoro, niente avanzamento di carriera, niente famiglia, niente figli, questa prospettiva, poi, può costare anche l’impiego. La conseguenza è un paese che stagna, non va avanti nell’economia, invecchia perché le donne non procreano. A ciò si aggiunge l’umiliazione dei mass media che sfoggiano corpi femminili sempre e comunque. “Di Nuovo” ha deciso di dire basta, e nel tentativo di recuperare lo spirito tenace degli anni ’70, invita le donne di tutte le generazioni, ad unirsi, a creare un ponte stavolta esteso anche agli uomini perché partecipino al processo di rinnovamento culturale, morale e civile della società. Sono tantissimi, infatti, quelli a cui tale misoginia non piace.
Questi concetti sono stati ripresi lo scorso 13 febbraio dalla manifestazione “Se non ora, quando?”. Quel giorno 230 piazze italiane sono diventate delle straordinarie casse di risonanza del disagio collettivo che migliaia di donne e di uomini nutrono nei confronti di certi modelli di comportamento femminili e maschili, oggi messi in luce dalla cronaca. Una pacifica protesta contro tutto ciò che offende la dignità delle donne e la loro intelligenza, o che le ostacola nei loro diritti. Le donne devono pretendere rispettabilità, devono rivendicare i ruoli che le competono nella società, diventare protagoniste dirette della vita pubblica, politica ed economica, e questo senza mai svilire la loro femminilità. A quella manifestazione, nata da poche e ampliata dal tam tam della rete, hanno aderito anche tanti lucane e lucani che, insieme ai connazionali, hanno costruito un ponte virtuale talmente ampio da oltrepassare l’oceano.