C’era una volta, in un villaggio di frontiera, un giovane uomo che si affacciava alla vita, quella vera. Primi peli, radi e sottili, in viso. Cambio di tono vocale e, soprattutto, quindici centimetri in più che facevano la differenza. Tale metamorfosi, ben accetta ma non voluta, lo rendeva titubante: “Continuare con le piccole gioie degli atteggiamenti infantili o seguire le sirene delle fanciulle in fiore?”. Delle due l’una, ma si sentiva, di colpo, assai attratto da quell’universo che aveva sempre snobbato: il mondo delle femmine. Al contempo, tuttavia, non voleva rinunciare al suo personale spazio vitale e alle sue prerogative ludiche che portava seco dalla nascita. Non riusciva ad abbandonare i suoi giochi, ma non sapeva come domare l’istinto maschio che prorompeva in anima e corpo.
Ogni giorno, restava imbambolato davanti a una ragazza diversa. In ognuna ci trovava un qualcosa: di primitivo o di kitsch, di bello, di ridicolo o di profondo, comunque un qualcosa. Una volta non le guardava neppure le femmine. L’infanzia lo aveva salvato da questa nuova sorta di dipendenza. Adesso erano prepotentemente presenti nei suoi pensieri. In tutte le salse. Era curioso, attento, bislacco e guardava, con occhi diversi, anche le donne un po’ fané, ma non lo dava a vedere e si rifugiava in un silenzio up-to-date. Che aveva notato nei ragazzi più grandi un mutismo che faceva mistero. Un silenzio affascinante. Carisma di tendenza lo chiamava, una reticenza a forma di coda di paglia che ad approfondire hai paura che il fienile prenda fuoco. Della serie: meglio non parlare che perdere un’occasione per tacere.
Un giorno inforcò la bicicletta e se ne andò in giro per la campagna. Si lanciò in discesa e planò nella valle. Era il 1982 e le terre brulicavano di gente al lavoro. Era il tempo della mietitura. Giugno: la falce in pugno. Gironzolando vide dei contadini che trafficavano nei loro terreni. C’era uno che adoperava una falciatrice blu e tagliava l’erba. Un altro, in un terreno adiacente, con uno strano attrezzo dietro al trattore, affastellava l’erba, tagliata qualche giorno prima e già rinsecchita, in lunghe file di paglia gialla. Era una sorta di enorme rastrello girevole, rosso con le grandi ruote color panna. Il ragazzo restò assorto, all’ombra di un pioppo, a contemplare le scene.
Finché non arrivò un altro contadino, con un trattore che trainava un’imballatrice verde, che passando sulle strisce di erba secca, riunite prima, creava, dal nulla, dei parallelepipedi di paglia. Balle, appunto. Balle di fieno gialle. Passò forse un’ora e fu tempo di rientrare. Tuoni in lontananza annunciavano pioggia. Lui pedalava forte per raggiungere un riparo e per poco un trattore col carrello non lo investiva. Il guidatore correva, che, di certo, doveva tentare di portare le balle al sicuro, prima che piovesse. Quei mezzi agricoli lo affascinavano molto, in particolare l’imballatrice perciò, qualche giorno dopo, nel cercare un punto per fotografare, con una banale macchinetta, balle e mezzi agricoli all’opera, finì in un fosso, con tutta la bici, rovinando la macchina fotografica di suo padre. La pendenza che dal dorsale del fossato scendeva verso il basso era costellata di cespugli. Assai diversa dalla rigogliosa macchia che verdeggiava oltre il crinale. Forse perché, lì, il vento soffiava in maniera differente. Lui non poteva avere cognizione della profondità. Comunque la campagna, da quella parte, offriva veri e propri nascondigli. Non doveva fare marcia indietro: non sarebbe finito gambe all’aria. Con una breve rincorsa tornò sulla strada. Il rullino si poté sviluppare, ma il resto fu da buttare.
Il racconto di Arsenio D’Amato ne “Il Lucano Magazine” in edicola!